Non è richiesto che le apparecchiature elettroniche di controllo della velocità siano munite di dispositivi in grado di assicurare una documentazione fotografica delll’accertamento della infrazione.
Alquanto discutibile la Sentenza della Cassazione Civile n. 5873 del 24-03-2004.
Svolgimento del processo
Con ricorso in data 11 settembre 2000, C.P. proponeva opposizione avverso il verbale con il quale la Polizia municipale di V. gli aveva contestato la violazione dell’art. 142, comma 9, D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 e gli aveva irrogato la sanzione amministrativa di lire 606.000 e quella accessoria della sospensione della patente di guida. A sostegno della opposizione, il ricorrente deduceva che l’accertamento era stato illegittimamente eseguito, perché l’apparecchio Telelaser mod LT1 20/20 era inaffidabile, giacché non consentiva di verificare in modo chiaro ed accettabile, tutelando la riservatezza dell’utente, la velocità tenuta dal veicolo “puntato” in un certo momento e rimetteva conseguentemente l’accertamento ad apprezzamenti meramente soggettivi, contrariamente a quanto stabilito dall’art. 345 del D.P.R. n. 495 del 1992 – regolamento di esecuzione del codice della strada (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285) che prescrive, per la validità degli accertamenti, criteri oggettivi; deduceva altresì mancanza di prove, essendo la pretesa dell’amministrazione suffragata da dichiarazioni generiche, precostituite, prestampate e prive di qualsiasi riferimento ai fatti realmente accaduti. L’opponente deduceva infine la violazione dell’art. 218 D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285.
Il Giudice di pace di Padova, con sentenza del 6-27 dicembre 2000, rigettava l’opposizione. Quanto alla asserita inaffidabilità dell’apparecchio utilizzato dai verbalizzanti per misurare la velocità, il giudice rilevava che, ai sensi dell’art. 142, comma 6, D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, sono considerate fonti di prova le risultanze delle apparecchiature debitamente omologate; che, nel caso di specie, l’omologazione dell’apparecchio (Telelaser LTI 20/20) risultava dal verbale di contestazione; che l’omologazione costituisce l’unico incombente legittimante il successivo uso dello strumento; che, in forza dell’efficacia probatoria privilegiata dell’atto pubblico ex art. 2700 c.c., il verbale di accertamento dell’infrazione fa piena prova, fino a querela di falso, dei dati in esso attestati dal pubblico ufficiale come avvenuti in sua presenza, sicché l’accertamento delle violazioni delle norme del codice della strada sulla velocità dei veicoli doveva ritenersi provato sulla base della verbalizzazione dei rilievi delle apparecchiature previste dallo stesso art. 142 D.Lgs. n. 285 del 1992, gravando sull’opponente l’onere di dimostrare, in base a concrete circostanze di fatto debitamente allegate e provate, i difetti di costruzione, installazione e funzionamento dello strumento. E nella specie, osservava il Giudice, l’opponente non aveva assolto a tale onere, non sussistendo in atti, al di là di meri sospetti, elementi dai quali arguire un cattivo funzionamento dell’apparecchio utilizzato. L’art. 345 del D.P.R. n. 495 del 1992 (regolamento di esecuzione), del resto, nel prescrivere che le apparecchiature elettroniche indichino la velocità del veicolo in modo chiaro e accertabile, non impone che le stesse forniscano la prova documentale della rilevazione, sicché spetta agli agenti accertatoli attestare i dati necessari e sufficienti per elevare il verbale di contestazione.
Quanto, infine alla dedotta violazione dell’art. 218 c.d.s. (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285), il giudice la riteneva irrilevante sulla base del rilievo che il termine ivi stabilito aveva natura ordinatoria e non perentoria.
Avverso tale sentenza, C.P. propone ricorso per Cassazione affidato a tre motivi, illustrati da memoria; resiste con controricorso la Prefettura di Padova.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 345 del D.P.R. n. 495 del 1992 (regolamento di esecuzione del codice della strada), in combinato disposto con gli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, Allegato E.
Il ricorrente rileva che, per le modalità di funzionamento, il Telelaser non risponderebbe alle prescrizioni dell’art. 345 del D.P.R. n. 495 del 1992 (regolamento di esecuzione). Esso infatti non consentirebbe in alcun modo di memorizzare la targa e le caratteristiche dell’autoveicolo che commette l’infrazione e il procedimento di accertamento si fonderebbe su elementi esclusivamente soggettivi insuscettibili di essere verificati ex post, anche perché nessun riferimento al veicolo “puntato” sarebbe desumibile dal display dell’apparecchiatura, mentre la rilevazione della velocità non sarebbe fissata in modo chiaro e accertabile. Risulterebbe pertanto violato l’art. 345 del D.P.R. n. 495 del 1992, il quale invece prescrive che la velocità debba essere fissata in un determinato momento in modo chiaro e accertabile, dovendosi riferire quest’ultima caratteristica alla possibilità di verifica da parte dell’automobilista. Del resto, se così non fosse, non avrebbe senso il riferimento contenuto nell’art. 345 D.P.R. n. 495 del 1992 alla esigenza di tutelare la riservatezza dell’utente, previsione questa che in tanto si giustifica in quanto la violazione contestata abbia un riscontro verosimilmente di tipo fotografico. In sostanza, ad avviso del ricorrente, il difetto di funzionamento del telelaser sarebbe in re ipsa, risulterebbe cioè dal fatto che esso non fornisce automaticamente dati sufficienti a contestare una violazione amministrativa ad un soggetto. Dalla illegittimità dei decreti di omologazione del telelaser discenderebbe quindi la illegittimità del verbale di contestazione de dell’ordinanza prefettizia.
Il motivo è infondato.
L’art. 142, comma 6, D.Lgs. n. 285 del 1982 (codice della strada), dispone che “per la determinazione dell’osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature debitamente omologate, nonché le registrazioni del cronotachigrafo e i documenti relativi ai percorsi autostradali, come precisato dal regolamento”. L’art. 345 del D.P.R. n. 495 del 1992 – regolamento di esecuzione -, sotto la rubrica “Apparecchiature e mezzi di accertamento della osservanza dei limiti di velocità”, a sua volta, dispone, al primo comma, che “Le apparecchiature destinate a controllare l’osservanza dei limiti di velocità devono essere costruite in modo da raggiungere detto scopo fissando la velocità del veicolo in un dato momento in modo chiaro ed accettabile, tutelando la riservatezza dell’utente”, e, al secondo comma, che “le singole apparecchiature devono essere approvate dal Ministero dei lavori pubblici”. Al quarto comma, il citato articolo stabilisce che “per l’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità, le apparecchiature di cui al comma 1 devono essere gestite direttamente dagli organi di polizia stradale di cui all’art. 12 del codice e devono essere nella disponibilità degli stessi”(D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285).
Le apparecchiature elettroniche di controllo della velocità devono dunque essere omologate, devono consentire di fissare la velocità del veicolo in un dato momento in modo chiaro e accettabile e possono essere utilizzate esclusivamente dagli organi di polizia stradale di cui all’art. 12 codice della strada (comma 1: “L’espletamento dei servizi di polizia stradale previsti dal presente codice spetta: a) in via principale alla specialità Polizia Stradale della Polizia di Stato; b) alla Polizia di Stato; c) all’Arma dei carabinieri; d) al Corpo della guardia di finanza; d-bis) ai Corpi e ai servizi di polizia provinciale, nell’ambito del territorio di competenza; e) ai Corpi e ai servizi di polizia municipale, nell’ambito del territorio di competenza; f) ai funzionari del Ministero dell’interno addetti al servizio di polizia stradale; f-bis) al Corpo di polizia penitenziaria e al Corpo forestale dello Stato, in relazione ai compiti di istituto”).
Non è invece richiesto, come sostenuto dal ricorrente, che esse siano anche munite di dispositivi in grado di assicurare una documentazione fotografica dell’accertamento della infrazione, solo così potendo ritenersi integrato il requisito della accettabilità della rilevazione ad opera della polizia stradale. In proposito, occorre rilevare, per confutare l’assunto difensivo, che la fonte primaria prescrive solo che le apparecchiature elettroniche possano costituire fonte di prova se debitamente omologate. È la norma regolamentare, alla quale rinvia l’art. 142, comma 6, del D.Lgs. n. 285 del 1982 (codice della strada), a stabilire quali siano i requisiti ai quali è subordinata l’omologazione delle apparecchiature elettroniche, e tra questi vi è quello che esse consentano di rilevare la velocità del veicolo in modo chiaro e accertabile. Requisito, questo, che presuppone unicamente la determinazione inequivoca della velocità di un determinato veicolo, ben potendo il concreto accertamento essere riferito ad uno specifico ed individuato veicolo dall’agente di polizia addetto all’apparecchiatura stessa. Non a caso, del resto, l’art. 345 del D.P.R. n. 495 del 1992 (regolamento di esecuzione del codice della strada) prescrive che per l’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità, le apparecchiature di cui al comma 1 devono essere gestite direttamente dagli organi di polizia stradale di cui all’art. 12 del D.Lgs. n. 285 del 1982 e devono essere nella disponibilità degli stessi. L’omologazione dell’apparecchiatura dunque concerne la idoneità della stessa a fissare in un determinato momento la velocità di un autoveicolo, ben potendo la riferibilità della velocità ad un determinato veicolo discendere dall’osservazione documentata ad opera dell’agente di polizia giudiziaria.
Né, come sostenuto dal ricorrente, potrebbe arguirsi la indispensabilità della documentazione fotografica per rendere la rilevazione della velocità chiara e accertabile dal fatto che la disposizione regolamentare prescrive che l’accertamento debba avvenire tutelando la riservatezza dell’utente. Deve infatti escludersi che dalla previsione esplicita di una modalità di un accertamento riferibile alla eventuale documentazione fotografica dell’infrazione commessa da un soggetto, possa trarsi la conseguenza che runico modo che consenta di rendere accertabile la rilevazione sia la documentazione fotografica del veicolo. Come detto, la fonte primaria si limita a stabilire che le rilevazioni eseguite a mezzo apparecchiatura elettronica debitamente omologate sono considerate fonti di prova, mentre la fonte regolamentare disciplina i requisiti che le apparecchiature debbono possedere per poter essere omologate e ciò fa senza alcun esplicito riferimento alla documentazione fotografica. Del resto, in considerazione della materia oggetto di regolamentazione e della rapida evoluzione tecnologica, deve ritenersi che opportunamente la fonte regolamentare si sia limitata a prevedere che le apparecchiature debbano consentire di fissare la velocità del veicolo in un determinato momento in modo chiaro e accertabile, e non abbia viceversa delineato le caratteristiche necessarie per l’omologazione attestandosi sulla tipologia delle apparecchiature all’epoca esistenti.
È noto del resto che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte (S.U. 25 novembre 1990, n. 12545; 5 dicembre 1995, n. 12846; 22 marzo 1995, n. 3316), nel giudizio di opposizione avverso l’ingiunzione di pagamento di una sanzione amministrativa, il verbale di accertamento dell’infrazione fa piena prova, fino a querela di falso, dei fatti in esso attestati dal pubblico ufficiale come avvenuti in sua presenza, descritti senza margini di apprezzamento, nonché della sua provenienza dal pubblico ufficiale: ciò in forza dell’efficacia probatoria privilegiata dell’atto pubblico ex art. 2700 c.c. Viceversa, sono prive di efficacia probatoria le valutazioni del verbalizzante (Cass. 14 febbraio 1990, n. 1090). Ne consegue che l’accertamento delle violazioni delle norme sulla velocità deve ritenersi provato sulla base della verbalizzazione dei rilievi delle apparecchiature previste da detto art. 142 D.Lgs. n. 285 del 1982, facendo peraltro prova il verbale fino a querela di falso dell’effettuazione di tali rilievi, mentre le risultanze di essi valgono invece fino a prova contraria, che può essere data dall’opponente in base alla dimostrazione del difetto di funzionamento di tali dispositivi, da fornirsi in base a concrete circostanze di fatto.
Orbene, con riferimento all’apparecchiatura denominata telelaser, il giudice del merito ha correttamente ritenuto che l’accertamento della velocità sia documentato dal verbale degli agenti addetti alla rilevazione, essendo il relativo verbale assistito di efficacia probatoria fino a querela di falso quanto ai dati in esso attestati dal pubblico ufficiale, e altrettanto correttamente ha escluso che la dizione dell’art. 345 del D.P.R. n. 495 del 1992 (regolamento di esecuzione) “in modo chiaro e accertabile” implichi la necessità che l’apparecchiatura elettronica fornisca anche la prova documentale dell’accertamento. Il medesimo giudice ha altresì rilevato che l’opponente, al di là di generici sospetti, non ha dedotto elementi dai quali desumere un cattivo funzionamento dell’apparecchio utilizzato nella circostanza, giungendo alla conclusione che le risultanze dell’accertamento compiuto dall’apparecchiatura elettronica non siano state vinte da prova contraria. Al contrario, è lo stesso ricorrente a dare atto che l’apparecchiatura telelaser oltre a consentire la visualizzazione della velocità rilevata, è predisposto per rilasciare anche uno scontrino contenente i dati rilevati. La riferibilità della velocità al veicolo discende invece dalla operazione di puntamento effettuata dall’agente di polizia stradale che ha in uso l’apparecchiatura in questione.
Il motivo di ricorso deve quindi essere respinto perché infondato.
Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente deduce insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione, articolando la censura in tre profili. In primo luogo, per la mancata considerazione degli argomenti difensivi, non avendo il giudice di pace neanche preso in considerazione quanto dedotto al punto 4 della memoria di costituzione in ordine alla disapplicazione per violazione dell’art. 345 del D.P.R. n. 495 del 1992 (regolamento di esecuzione), dei decreti di omologazione del telelaser, essendosi il giudice limitato a rilevare che la prescritta omologazione risulta dal verbale di contestazione in atti, senza valutare se vi fossero i requisiti per la disapplicazione di quei decreti.
Sotto un secondo profilo, il ricorrente denuncia il vizio di contraddittorietà interna della motivazione, dal momento che in sentenza si afferma che non vi è possibilità di errore in fase di rilevamento della velocità, mentre la stessa difesa del Comune di V. aveva ammesso che il sistema di rilevazione di velocità a mezzo telelaser è praticabile solo in caso di basso – medio flusso veicolare per non incorrere in errori di rilevamento o a disparità di trattamento.
Sotto un ulteriore profilo, la sentenza impugnata viene censurata per illogicità manifesta conseguente alla mancata assunzione di prove decisive. La sentenza afferma infatti che le risultanze dell’accertamento compiuto dall’apparecchiatura non sono state vinte da prova contraria, e tuttavia il giudice non ha ritenuto di ammettere le prove richieste nel ricorso in opposizione, essendo la causa già matura per la decisione.
Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile. Infondato è il primo profilo, dal momento che il giudice del merito, nel rilevare che l’apparecchiatura in concreto utilizzata risultava, per quanto attestato nel verbale di contestazione in atti, omologata, ha poi affermato, proprio con riferimento all’art, 345 del D.P.R. n. 495 del 1992, che nella prospettazione del ricorrente costituisce la norma dalla quale discenderebbe la illegittimità del decreto di omologazione, che ciò che è richiesto è che le apparecchiature fissino in modo chiaro e accettabile la velocità del veicolo, restando affidato agli agenti accertatoli l’attestazione dei dati necessari e sufficienti per elevare il verbale di contestazione. Si tratta di motivazione che, riconoscendo la conformità dell’apparecchiatura omologata alle prescrizioni del regolamento, implicitamente disattende la richiesta, formulata dall’opponente nel giudizio di merito, di disapplicazione del decreto di omologazione.
Infondato è anche il secondo profilo. La censura si riferisce all’affermazione del giudice del merito, secondo cui non vi sarebbe possibilità di errore in rase di rilevamento, in quanto, ove l’apparecchio venisse anche minimamente spostato, ne conseguirebbe l’annullamento della misurazione e non l’attribuzione della velocità ad altro veicolo. Osserva invece il ricorrente che la stessa amministrazione convenuta, in sede di costituzione nel giudizio di opposizione, aveva affermato che “è chiaro che tale sistema di rilevazione di velocità (tramite telelaser) è praticabile solo in caso di basso/medio flusso veicolare per non incorrere in errori di rilevamento o a disparità di trattamento”. Il ricorrente, tuttavia, non solo non deduce l’erroneità in concreto dell’accertamento, ma non deduce alcunché in ordine alle circostanze di fatto dell’accertamento, con la conseguenza che l’eventuale vizio di motivazione non investirebbe un punto decisivo della controversia.
Inammissibile è poi il terzo profilo nel quale si articola il secondo motivo di ricorso. Il ricorrente lamenta infatti la illogicità manifesta della sentenza per mancata assunzione di prove decisive, senza peraltro riportare, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, i capitoli di prova e le circostanze che avrebbero dovuto formare oggetto della prova non ammessa dal giudice del merito (Cass., 19 aprile 2001, n. 5816 Cass., 26 aprile 2002, n. 6078; Cass., 12 giugno 2002, n. 8388).
Con un terzo motivo, proposto in via subordinata al mancato accoglimento dei primi due, il ricorrente deduce il vizio di violazione e/o falsa applicazione dell’art. 218 D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, disposizione questa che, secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale, prescrive che il provvedimento di sospensione della patente venga emesso nel termine perentorio di venti giorni dalla contestazione (cinque giorni per la trasmissione del verbale al Prefetto; quindici giorni per le determinazioni del Prefetto). Nel caso di specie, il verbale redatto il 2 settembre 2000 è stato trasmesso alla Prefettura in data 8 settembre 2000, e quindi oltre il termine di cinque giorni stabilito dalla citata disposizione; e tuttavia, nella sentenza impugnata si legge invece che il termine in questione è ordinatorio.
Il motivo è infondato.
L’art. 218, comma 2, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (codice della strada) dispone che, in ipotesi di violazioni comportanti la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, l’agente accertatore procede al ritiro della patente stessa ed al suo invio, entro i cinque giorni successivi, alla prefettura del luogo della commessa violazione. Il prefetto, nei successivi quindici giorni, emette il provvedimento di sospensione, che deve essere notificato immediatamente all’interessato e che viene iscritto sul documento di guida. Qualora l’ordinanza prefettizia non venga emessa entro i termini indicati, il titolare della patente può ottenere la restituzione di quest’ultima.
In relazione a tale disposizione, nella sent. n. 276 del 1998 la Corte Costituzionale ha rilevato che “il diritto di difesa dell’interessato non risulta compresso, anzitutto perché, nel solco della giurisprudenza di questa Corte (v. le sentenze n. 31 del 1996, n. 437 del 1995, n. 255 e n. 311 del 1994), occorre affermare che egli può immediatamente proporre opposizione al pretore avverso il verbale di accertamento dell’infrazione e di ritiro della patente, chiedendone la sospensione ai sensi dell’art. 22, ultimo comma, della legge n. 689 del 1981. Qualora preferisca, invece, attendere di conoscere l’ordinanza prefettizia e questa non gli venga notificata entro venti giorni dalla data di ritiro della patente (termine risultante dalla somma di quelli stabiliti nel comma 2, dell’art. 218 D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 – cod. strada), egli potrà richiedere la riconsegna del documento di guida. A quel punto, potrà agevolmente verificare se sia stato emesso o meno un provvedimento di sospensione della patente: in caso affermativo, infatti, la patente stessa non verrà restituita o, quand’anche lo fosse, riporterà l’annotazione della sospensione, si che, in entrambi i casi, l’interessato potrà richiedere immediatamente copia del provvedimento prefettizio ed eventualmente impugnarlo avanti l’autorità giudiziaria”. Nella medesima decisione, la Corte ha altresì escluso che sussista una violazione dell’art. 3 Cost., non rinvenendosi alcuna irragionevolezza nella scelta legislativa di stabilire un termine perentorio entro cui deve essere emesso il provvedimento prefettizio di sospensione della patente e non anche un preciso termine entro cui il provvedimento stesso va notificato.
Appare dunque evidente che l’unico termine perentorio da prendere in considerazione ai fini che qui rilevano è quello di venti giorni, decorrenti dall’accertamento della infrazione, per l’adozione del provvedimento di sospensione della patente di guida da parte del Prefetto, mentre del tutto privo di autonoma rilevanza risulta il termine di cinque giorni entro il quale l’organo che abbia provveduto all’accertamento della violazione deve trasmettere al Prefetto la patente di guida unitamente al verbale.
Nella specie, il provvedimento prefettizio è intervenuto nei venti giorni dall’accertamento della violazione e dal ritiro della patente. Nella sentenza impugnata si riferisce infatti che l’ordinanza di sospensione della patente è stata emessa dal Prefetto l’11 settembre 2000, mentre, come affermato dallo stesso ricorrente, il verbale redatto il 2 settembre 2000 è pervenuto alla Prefettura di Padova in data 8 settembre 2000. Il ricorrente si duole dunque della violazione del termine di trasmissione della patente e del verbale al Prefetto, senza che da tale ritardo sia derivata la violazione del termine di quindici giorni accordato al Prefetto per assumere le proprie determinazioni in ordine alla sospensione della patente. Risulta dunque del tutto evidente come impropriamente sia stata dal ricorrente invocata la citata pronuncia della Corte Costituzionale, giacché è solo il termine per l’adozione del provvedimento prefettizio che può essere qualificato come perentorio. Del resto, lo stesso ricorrente prospetta la censura in termini del tutto ipotetici, sostenendo che il provvedimento prefettizio avrebbe potuto essere adottato il ventunesimo giorno dalla data dell’accertamento della violazione, “e ciò in palese contrasto con la perentorietà del termine complessivo di venti giorni così come affermato dalla Corte Costituzionale”. Come si vede, dunque, è l’astratta possibilità della adozione del provvedimento oltre il ventesimo giorno dall’accertamento che viene denunciata dal ricorrente, non già l’intervenuta violazione del termine perentorio di venti giorni da parte del Prefetto; termine che, come rilevato, risulta nella specie ampiamente rispettato.
Il ricorso deve quindi essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in euro 1.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 6 giugno 2003.
Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2004.