LICENZIAMENTO DISCIPLINARE – ADDEBITO MOSSO AD UN INSEGNANTE PER DOMANDE PERSONALI RIVOLTE AD UN ALUNNO – RILEVANZA E GRAVITA' DELL'INFRAZIONE
(Sezione Lavoro – Pres. P. Dell'Anno – Rel. G. D'Agostino)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Roma notificato il 22.7.2.1999 D. I., insegnante presso il Complesso Scolastico (omissis) s.r.l. di questa città, premesso di essere stata licenziata il 30 giugno 1999 per motivi disciplinari, come da lettera di contestazione del 7.7.1999, chiedeva al giudice adito di dichiarare la nullità del licenziamento con reintegrazione nel posto di lavoro e condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni.
L'Istituto scolastico si costituiva e si opponeva alla domanda.
Il Tribunale, con sentenza del 24.3.2000 accoglieva il ricorso, ordinava la reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro e condannava la convenuta al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento. Il giudice di primo grado riteneva nullo il licenziamento per evidente sproporzione tra la condotta dell'insegnante e la sanzione espulsiva inflitta.
L'appello proposto dal (omissis) veniva respinto dalla Corte di Appello di Roma con sentenza depositata il 20 marzo 2001. In motivazione la Corte territoriale, premesso che alla I.era stato contestato di aver affrontato con un alunno l'argomento dell'adozione chiedendogli se avesse conosciuto i suoi genitori naturali e se avesse curiosità di conoscerli, affermava di condividere le valutazioni del giudice di primo grado in ordine alla evidente sproporzione tra la condotta contestata alla lavoratrice e la massima sanzione inflittale. La Corte territoriale rilevava, inoltre, che il risarcimento del danno era stato determinato dal primo giudice sulla base delle buste paga prodotte dalla stessa società e quindi non contestate.
Per la cassazione di tale sentenza il Complesso Scolastico (omissis) ricorre con due motivi. D. I., che resiste con controricorso, ha proposto a sua volta ricorso incidentale condizionato con un motivo ed ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente deve essere disposta la riunione dei ricorsi a norma dell'art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni proposte contro la medesima sentenza.
Con il primo motivo del ricorso principale l'Istituto scolastico, denunciando violazione del combinato disposto degli artt. 420 e 130 c.p.c., nonché omessa motivazione, lamenta che nel giudizio di primo grado, in sede di tentativo di conciliazione, sarebbe stata omessa la verbalizzazione del rifiuto della I. alla reintegrazione nel posto di lavoro. Secondo la ricorrente tale rifiuto avrebbe comportato la perdita del diritto della lavoratrice alla reintegrazione nel posto di lavoro ed alla indennità risarcitoria, mentre la mancata verbalizzazione del rifiuto avrebbe comportato la nullità 'del giudizio di primo grado, non rilevata dal giudice di appello.
Con il secondo motivo, denunciando violazione di legge e vizi di motivazione, la società ricorrente, sotto un primo profilo, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ravvisato una sproporzione tra la condotta contestata e la sanzione inflitta alla lavoratrice e addebita al Tribunale di non aver valutato la gravità del comportamento dell'insegnante. Sotto un secondo profilo la ricorrente lamenta che il giudice di appello non avrebbe rilevato l'errore di calcolo nella determinazione dell'indennità dovuta alla lavoratrice in cui era incorso il Tribunale, atteso che a suo giudizio nella base di calcolo non andava computato l'emolumento, puramente aggiuntivo ed occasionale, del compenso per prolungamento di orario.
Con l'unico motivo del ricorso incidentale condizionato l'insegnante ripropone in questa sede la domanda di nullità del licenziamento per violazione delle norme procedurali di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970, perché la lettera di licenziamento avrebbe fatto riferimento ad addebiti non contemplati nella lettera di contestazione.
Il primo motivo del ricorso principale è inammissibile perché nuovo.
Osserva il Collegio che la questione con esso proposta (nullità delle sentenze dei giudici di merito per la mancata verbalizzazione delle dichiarazioni rese dalla I. in primo grado in sede di tentativo di conciliazione e perdita del diritto all'indennità risarcitoria da parte dell'insegnante) è del tutto estranea alla struttura argomentativa e precettiva della sentenza impugnata.
Questa Corte ha più volte affermato che quando una determinata questione che implichi accertamenti di fatto non risulti in alcun modo trattata nella sentenza impugnata il ricorrente per cassazione che la riproponga in sede di legittimità, al fine di evitare una pronuncia di inammissibilità per novità della censura, ha l'onere di allegare non solo la già avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio abbia a ciò provveduto, onde dare modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità dell'asserzione e la sua decisività. Infatti i motivi del ricorso per cassazione devono investire a pena di inammissibilità questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nelle fasi di merito e non rilevabili d'ufficio (cfr. tra le tante Cass. N. 492 del 2001, Cass. N. 10902 del 2.001, Cass. N. 16303 del 2002).
Orbene nella specie il ricorrente lamenta il mancato esame da parte della Corte di Appello delle questioni sopra indicate assumendo di averle proposte con l'atto di appello. Rileva però il Collegio che le predette questioni, così come proposte con i1 ricorso per cassazione, non si rinvengono affatto nell'atto di appello, alla cui lettura la Corte è abilitata per la natura del vizio prospettato. Le conclusioni in appello, infatti, sono state così formulate: "…in riforma della impugnata sentenza rigettare la domanda dichiarando la legittimità del licenziamento quantomeno per giustificato motivo ed in via meramente subordinata riformarla almeno parzialmente con riduzione delle somme dovute a titolo di stipendio nella misura ridotta". Nel contesto dell'atto, inoltre, non si fa alcun accenno alla omessa verbalizzazione delle dichiarazioni rese dalla parte in sede di tentativo di conciliazione né si chiede l'annullamento della sentenza di primo grado per tale motivo; l'asserito rifiuto della I. alla offerta riammissione in servizio viene solo portato come sostegno alla tesi della legittimità del licenziamento.
In buona sostanza le censure proposte con il primo motivo del ricorso principale sono del tutto nuove e pertanto non sono ammissibili.
Il secondo motivo di ricorso, nel suo primo profilo, è infondato.
La valutazione della proporzionalità tra il comportamento illecito del lavoratore ed il licenziamento disciplinare irrogato, secondo la giurisprudenza di questa Corte, costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo per difetto di motivazione (vedi Cass. N. 7962 del 2002, Cass. n. 7188 del 2001, Cass. N. 10775 del 2001).
Nella specie la Corte di Appello ha dato compiuta ragione della propria decisione prendendo in esame il comportamento dell'insegnante ritenuto dal datore di lavoro passibile di sanzione, il contesto nel quale si svolto il colloquio tra la predetta e l'alunno, il contenuto confidenziale del colloquio e la sua non dissonanza dalle direttive del consiglio di classe ed ha confermato il giudizio, in termini di sproporzione tra il fatto addebitato e la sanzione inflitta, espresso dal giudice di primo grado.
Le affermazioni della Corte territoriale, congruamente motivate, sono prive di vizi logici e contraddizioni e consentono di ricostruire agevolmente l'iter argomentativo che sorregge la decisione. Per contro le censure del ricorrente si risolvono nella richiesta di una diversa interpretazione dei fatti, non consentita al giudice di legittimità, e non sono meritevoli di accoglimento.
Parimenti infondato è il secondo profilo di censura. Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto corretto il conteggio degli emolumento mensili dell'insegnante ai fini del risarcimento del danno ed in particolare il conteggio dell'indennità c.d. di prolungamento orario, a suo dire rimesso alla discrezionalità del datore di lavoro. Sta di fatto che la Corte territoriale ha giudicato esatto il conteggio del primo giudice perché effettuato sulla base delle buste paga prodotte dallo stesso istituto scolastico. La inclusione di detta indennità nella busta paga, non contestata dall'attuale ricorrente, depone per la correttezza della decisione del giudice di appello, poiché la "retribuzione globale di fatto" cui è rapportato il risarcimento ex art. 18 legge n. 300/1970 è comprensiva di tutte le voci stipendiali ordinariamente corrisposte al lavoratore licenziato, ivi comprese quelle saltuarie ed eventuali.
Per tutte le considerazioni sopra esposte, il ricorso, dunque, deve essere respinto ed il ricorrente deve essere condannato al pagamento in favore dell'intimata delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro16.00 oltre ad euro duemila per onorari.