OBBLIGO DEL DATORE DI LAVORO DI EFFETTUARE SU RICHIESTA DEL LAVORATORE VERSAMENTI DEI CONTRIBUTI SINDACALI A SINDACATO NON FIRMATARIO DEL CONTRATTO COLLETTIVO
(Sezione Lavoro – Presidente G. Prestipino – Relatore B. Balletti)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ex art. 28 della legge n. 300/1970 lo (omissis) conveniva in giudizio la s.p.a. (omissis) dinanzi al Giudice del lavoro di Torino chiedendo allo stesso di sanzionare l'antisindacalità del comportamento della società consistito nell'avere omesso di operare le trattenute delle quote associative a favore del ricorrente sindacato dovute per effetto dell'avvenuta notifica alla società datrice di lavoro di distinti atti individuali di asserita cessione di credito retributivo.
Nel relativo giudizio si costituiva la s.p.a. (omissis) che impugnava integralmente l'avverso ricorso e ne chiedeva il rigetto.
L'adito Giudice del lavoro, con decreto ex art. 28 cit., dichiarava l'antisindacalità del comportamento della convenuta società, ordinava alla stessa l'immediata cessazione di tale comportamento e la rimozione degli effetti – e, cioè, di effettuare i pagamenti mensili in favore del ricorrente sindacato in relazione alle cessioni di credito delle quali aveva ricevuto comunicazione da parte dei suoi dipendenti ex artt. 1260 e segg. cod. civ. -, ordinava l'affissione del dispositivo nelle bacheche esistenti presso l'azienda per la durata di giorni venti, condannava la società al pagamento delle spese processuali.
Avverso tale decisione proponeva opposizione la s.p.a. (omissis) e – ricostituitosi il contraddittorio – il Giudice del lavoro revocava l'opposto decreto, rigettando le domande proposte dal sindacato con l'originario ricorso, ma – su impugnativa della parte soccombente l- a Corte di Appello di Torino, in accoglimento dell'appello, confermava il decreto ex art. 28 della legge n. 300/1970 e condannava la società appellata al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
Per quello che rileva in questa sede il Giudice di appello ha rimarcato che: a) "l'art. 26, secondo comma, della legge n. 300/1970 attribuiva alle associazioni sindacali (a tutte, a prescindere da particolari requisiti di rappresentatività, come invece, per l'art. 19) il diritto di riscuotere i contributi sindacali tramite ritenuta sul salario; la norma poneva, quindi, un obbligo di collaborazione a carico del datore di lavoro che doveva prestarsi ad effettuare la trattenuta ed il versamento al sindacato; l'effetto del referendum abrogativo e del conseguente d.P.R. è stato di eliminare dall'ordinamento tale norma (e, quindi, di eliminare il diritto del sindacato e l'obbligo del datore di lavoro da tale norma nascenti) ma non di porre un divieto e rendere quindi illecita la condotta di riscossione delle quote associative sindacali a mezzo trattenuta operata dal datore di lavoro"; b) "ciò è di assoluta evidenza se si considera che, pur dopo il referendum, sono rimaste valide le pattuizioni contrattuali – quali l'art. 6 "disciplina generale, sezione seconda" del c.c.n.l. del settore metalmeccanico – che prevedevano l'effettuazione delle trattenute e, sostituita la fonte contrattuale a quella legale, il diritto alla riscossione tramite trattenuta è rimasto in vita per i sindacati che di tali norme potevano avvalersi (non lo omissis che non è firmatario del c.c.n.l. metalmeccanici)"; c) "ulteriore conseguenza è che la cessione di credito posta in essere dai lavoratori a favore del sindacato non integra la fattispecie di nullità del contratto per illiceità della causa di cui all'art. 1344 c.c.: non può infatti dirsi che il contratto sia il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa poiché, come sopra visto, una norma imperativa che vieti al sindacato di ottenere il pagamento delle quote associative mediante trattenuta sulla retribuzione ad opera del datore di lavoro non esiste, né è sorta come effetto del referendum"; d) "l'attività posta in essere dallo (omissis) facendo ricorso all'istituto della cessione di credito è manifestamente finalizzata ad uno scopo tipico del sindacato e necessario alla sua stessa esistenza, e cioè al suo finanziamento (né rileva che a tale scopo il sindacato potrebbe provvedere anche altrimenti), il rifiuto di dar attuazione ad una legittima cessione di credito chiaramente finalizzata al finanziamento del sindacato significa porre un ostacolo alla libertà sindacale"; e) "non costituisce una valida ragione di opposizione l'invocare asseriti oneri aggiuntivi: la cessione di credito è istituto che non richiede l'assenso del debitore ceduto e gli oneri del pagamento sono a carico del debitore ex art. 1196 c.c.; comunque tali oneri sono assai modesti, posto che già esiste certamente una procedura per l'accredito delle quote associative ai sindacati firmatari del c.c.n.l."; f) "la giurisprudenza ritiene sanzionabile il comportamento oggettivamente antisindacale (Cass. Sez., unite 12 giugno 1997, n. 5295)"; g) "nel caso in esame l'inconsistenza delle ragioni addotte per non dar corso alle cessioni dimostra la positiva esistenza di un intento antisindacale, cioè la volontà di ostacolare il sindacato (omissis)".
Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. (omissis) propone ricorso affidato a tre motivi e sostenuto da memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
L'intimato (omissis) resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente denunciando "violazione del d.P.R. n. 313/1995 e vizi di motivazione" rileva che "la sentenza impugnata appare viziata sia sotto il profilo della violazione di legge, in quanto di fatto reintroduce quell'obbligo legale che il legislatore referendario aveva voluto invece escludere, sia sotto il profilo della retta ed ineccepibile motivazione, non essendo convincente l'affermazione secondo cui l'effetto del referendum sarebbe unicamente quello di impedire la proposizione di un obbligo "legale" del datore di lavoro, ma non già di una diversa tecnica tesa a raggiungere il medesimo risultato".
Con il secondo motivo la ricorrente – denunciando "violazione degli artt. 1260 e segg. cod. civ. e vizi di motivazione" – censura la decisione della Corte di Appello di Torino per non avere considerato "che lo schema negoziale effettivamente utilizzato nella specie è quello della delegazione di pagamento, istituto in cui si inquadra la ritenuta sindacale ex c.c.n.l. (e prima ex art. 26 "statuto") in quanto revocabile in ogni momento, per cui il lavoratore, qualora muti opinione in materia sindacale, può eliminare la ritenuta o mutarne il sindacato destinatario in ogni momento, con efficacia dal primo periodo di paga successivo, mentre la stessa revoca immediata non è possibile qualora si adotti lo schema della cessione di credito, senza il consenso del sindacato beneficiario".
Con il terzo motivo di ricorso la società – denunciando "violazione dell'art. 28 della legge n. 300/1970 e vizi di motivazione" – addebita alla sentenza impugnata di essere "largamente immotivata circa il carattere antisindacale del comportamento del datore di lavoro, non potendosi ritenere, in realtà, che la semplice violazione di un patto inter alios possa automaticamente determinare una lesione di uno specifico e qualificato interesse del sindacato … [atteso che] essendo venuta meno la fonte legale del diritto, le aspettative del sindacato in tale materia possono scaturire esclusivamente da una fonte privatistico-contrattuale, come tale idonea a creare obbligazioni unicamente sul piano meramente civilistico, con la conclusione che, in mancanza di una precisa norma legale o collettiva che attribuisca uno specifico diritto al sindacato, non potrà considerarsi antisindacale l'ipotetico inadempimento di un obbligo del datore nei confronti del lavoratore solo perché quest'ultimo ha individuato come terzo beneficiario del negozio giuridico il sindacato".
I cennati motivi di ricorso – esaminabili congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi si – appalesano fondati.
Al riguardo al fine di una completa valutazione della questione relativa alla riscossione dei contributi sindacali con riferimento alla normativa ed agli orientamenti giurisprudenziali in materia occorre precisare che il secondo comma dell'art. 26 della legge n. 300/1970 (come sostituito dall'art. 18 della legge n. 223/1991) attribuiva alle associazioni sindacali "il diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscono la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale". Il terzo, comma dello stesso articolo prevedeva poi che, nelle aziende in cui il rapporto di lavoro non fosse stato regolato da contratti collettivi, il lavoratore aveva "diritto di chiedere il versamento del contributo sindacale all'associazione da lui indicata".
A seguito del referendum popolare dell' 1 I giugno 1995 la cennata norma è stata abrogata (d.P.R. 28 luglio 1995 n. 313), per cui è venuto meno l'obbligo ex lege per il datore di lavoro di operare, sulla base di una mera richiesta del lavoratore dipendente, la trattenuta sulla retribuzione della quota associativa sindacale (cd. contributo sindacale) a favore dell'associazione sindacale di appartenenza.
Peraltro, alla stregua della (quasi totalità della) contrattazione collettiva successivamente intervenuta, le organizzazioni sindacali stipulanti hanno ottenuto dalle associazioni imprenditoriali il riconoscimento del diritto di riscossione dei contributi sindacali tramite trattenuta della retribuzione sostituendo, così, alla "fonte legale" la "fonte contrattuale sindacale" [cfr., per tutti (data la "funzione pilota" riconosciuta generalmente al contratto dei "metalmeccanici"), l'art. 6 della "disciplina generale, sezione seconda" del relativo c.c.n.l.].
In relazione a tali "momenti" normativi la giurisprudenza è intervenuta secondo i seguenti significativi indirizzi: 1) nel periodo "pre-referendario" questa Corte (Sez. Lavoro) ha ritenuto che il rapporto cui dava luogo l'applicazione dell'art. 26 della legge n. 300/1970 si configurava come "delegazione di pagamento" e non quale "cessione di credito" in quanto nella specie veniva costituito un rapporto plurisoggettivo con partecipazione di negozio fin dall'origine del delegante, del delegato e del delegatario, negozio nel quale il delegante impartisce al delegato l'ordine di eseguire il pagamento a favore del delegatario (iussum solvendi) ed a quest'ultimo l'ordine di riceverlo (iussum accipiendi); così il rapporto di lavoro (o, meglio, il credito di retribuzione) costituisce la provvista e il rapporto associativo sindacale (o più esattamente contributivo), che si realizza per il tramite del primo, rappresenta invece la valuta [Cass. sez. lav. n. 761/1989 e, in termini sostanzialmente analoghi, ex plurimis Cass. sez. lav. n. 822/1989, Cass. sez. lav. n. 9470/1991, Cass. sez. lav. n. 1312/2000 (quest'ultima intervenuta sempre su fattispecie regolata interamente dalla normativa pre referendaria)];
2) questa Corte (I Sezione civile), sempre nel periodo di vigenza dell'art. 26, ha precisato che l'atto di disposizione del lavoratore impartito al datore di lavoro di accredito del contributo sindacale "non è qualificabile nè come cessione di credito in considerazione della sua unilateralità e revocabilità, nè come delegatio solvendi in considerazione del suo carattere vincolante per il datore di lavoro" (così, testualmente, Cass. 1 sez. n. 307/1990, Cass. I sez. n. 308/1990, Cass. sez. 1 n. 778/1990, Cass. 1 sez. n. 10318/1992: decisioni tutte conformemente pronunziate nel senso che il credito di un'associazione di categoria nei confronti del datore di lavoro, in relazione a contributi sindacali che il dipendente abbia deciso di versare, con ritenuta sul salario, secondo la previsione dell'art. 26 cit. e mediante la delega all'uopo contemplata dai contratti collettivi, non ha attinenza con un credito di lavoro, e non gode quindi del privilegio generale accordato a quest'ultimo dall'art. 2751 bis, n. 1, cod. civ.);
la Corte Costituzionale, nel dichiarare ammissibile l'iniziativa referendaria di abrogazione dell'art. 26 cit., ha precisato che il secondo ed il terzo comma di tale norma erano strettamente collegati fra di loro concorrendo a configurare in ogni caso la "ritenuta" come diritto perfetto del sindacato, per cui l'intendimento abrogativo "consisteva nel voler eliminare la base legale di quel diritto e del correlativo obbligo di intermediazione, per restituire la materia all'autonomia privata, individuale e collettiva" (Corte Cost. n. 13/1995);
successivamente all'abrogazione della norma statutaria, questa Corte è intervenuta sulla questione dell'applicabilità della disposizione del contratto collettivo (sanzionante l'obbligo contrattuale della trattenuta del contributo sindacale) nei confronti dei lavoratori non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti statuendo che: *) la distinzione fra clausole "normative" e "obbligatorie" che possono essere contenute in un contratto collettivo è nel senso che quelle "normative" sono destinate a regolare i contratti e rapporti individuali di lavoro, mentre sono "obbligatorie" quelle che regolano esclusivamente i rapporti tra le associazioni sindacali partecipanti alla stipulazione dei contratti medesimi, con la conseguenza che queste ultime clausole creano obblighi e diritti per le parti stipulanti e non già per i singoli lavoratori; *) nell'interpretazione dell'art. 6 del c.c.n.l. dell'industria metalmeccanica privata (che sanciva l'impegno del datore di lavoro ad effettuare le trattenute dei contributi sindacali sulle retribuzioni dei dipendenti), deve essere verificato con particolare incisività ex art. 1363 cod. civ. se la cennata clausola contrattuale – in quanto collocata nella "sezione dei diritti sindacali" – rientri nell'ambito della parte "obbligatoria" del contratto (e non, invece, in quella "normativa") e pertanto, essendo accoglibile la prima ipotesi, se la clausola medesima siccome diretta a regolare i rapporti fra le associazioni sindacali stipulanti possa non rivestire efficacia nei confronti dei lavoratori non aderenti alle cennate associazioni [Cass. n. 3813/2001, Cass. n. 6656/2002: decisioni sostanzialmente conformi, ma con l'avvertenza che solo la prima di esse contiene l'obiter (ripreso nella massima secondo cui "qualora i lavoratori abbiano richiesto al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali e abbiano rilasciato delega allo stesso per versarli ad associazioni sindacali non firmatarie di contratti collettivi applicati in azienda, il comportamento omissivo del datore di lavoro che rifiuti di effettuare detti versamenti si configura come antisindacale, in quanto pregiudica l'acquisizione da parte del sindacato dei mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento dell'attività, e perciò ricade nella tutela inibitoria di cui all'art. 28 Stat. Lav.") che si rifà espressamente alla giurisprudenza della Corte dinanzi citata sub "a/1" e riferita esclusivamente alla normativa pre-referendaria]. a. Dall'excursus sullo stato della normativa e della giurisprudenza nella dedotta materia discende che: prima dell'abrogazione del secondo e del terzo comma dell'art. 26 l'obbligo ex lege per il datore di lavoro di effettuare le trattenute sindacali veniva inquadrato nell'istituto della "delegazione di pagamento" o quale conseguenza di un atto unilaterale del lavoratore non inquadrabile in un negozio "nominato";
la Corte Costituzionale – nel dichiarare ammissibile il referendum abrogativo – ha statuito che con il referendum veniva eliminata la ragione fondativa legale (ex lege) del diritto alla riscossione dei contributi sindacali mediante trattenute sulla retribuzione e la materia era così "restituita" alla base contrattuale individuale e collettiva (ex contractu) – cioè veniva sancito il passaggio dalla "fonte legale" alla "fonte contrattuale" -;
con esclusivo riferimento alla contrattazione collettiva che post-referendum ha regolamentato la materia, questa Corte ha ritenuto che la cennata regolamentazione non potesse applicarsi nei confronti dei lavoratori aderenti ad associazioni sindacali non firmatarie del contratto collettivo: per cui dalla relativa contrattazione collettiva non poteva scaturire un obbligo a carico del datore di lavoro di effettuare le trattenute sulla retribuzione di detti lavoratori a titolo di contributi sindacali a favore dei sindacati non firmatari. Tanto evidenziato, la questione sollevata dalla società ricorrente attiene alla insussistenza di un obbligo ex se, a suo carico, di effettuare le trattenute di parte della retribuzione per contributi sindacali dovuti dal lavoratore a favore di un sindacato non firmatario del contratto collettivo e che la Corte di Appello di Torino ha ritenuto, invece, sussistente a prescindere dall'applicabilità del contratto collettivo disciplinante la materia – e, cioè, ex se, in forza di un atto dispositivo del lavoratore inquadrabile nella "cessione del credito" – ed ha, quindi, qualificato il relativo comportamento inadempiente della società datrice di lavoro come comportamento antisindacale sanzionabile ex art. 28 della legge n. 300/1970.
Nel presente giudizio deve essere risolta – vale rimarcarlo – la questione concernente l'asserita sussistenza di un obbligo a carico del datore di lavoro di effettuare la trattenuta del contributo sindacale esclusivamente sulla base di un atto dispositivo del lavoratore anche senza il consenso dello stesso debitore datore di lavoro ex art. 1260 cod. civ. e senza alcun riferimento al contratto collettivo pure disciplinante la materia e, pertanto, non a seguito di un accordo contrattuale inter partes (intese le stesse quali parte creditrice e parte debitrice della retribuzione).
b. Anzitutto, il "capo" della decisione del Giudice di appello che ha inquadrato il cennato obbligo nell'ambito della "cessione di credito" non può essere censurato tout court in relazione all'argomentazione della ricorrente che siffatta soluzione dovrebbe essere considerata "in frode alla legge" e ciò in quanto l'abrogazione della normativa legislativa statutaria non ha certo determinato un "vuoto" nella regolamentazione della materia, ma – come ha precisato la Consulta – ha "restituito" all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla legge: per cui ora, piuttosto che accennare ad una attività negoziale "in frode alla legge", occorre verificare in che modo l'attività contrattuale possa correttamente svilupparsi per regolamentare la dedotta materia.
In tale indagine l'affermazione della Corte di Appello – su cui si fonda la sentenza impugnata -, a mente della quale "non si tratta di far rivivere la norma abrogata ma di prendere atto che il medesimo risultato è raggiungibile per altre legittime vie, siano esse quelle dell'accordo contrattuale tra le parti oppure quelle del ricorso ad un diverso istituto giuridico che non richiede per la sua attuazione il consenso del datore di lavoro" appare negativamente generica perché accomuna due ipotesi tra di loro non assimilabili: quella di un accordo contrattuale e l'altra di un atto dispositivo del lavoratore senza l'accordo del datore di lavoro. Nel primo caso la "via" per pervenire al risultato della "trattenuta del contributo sindacale sulla retribuzione" si conforma a quanto rilevato dalla Corte Costituzionale per sancire l'ammissibilità del referendum abrogativo dell'art. 26 – secondo cui, vale ribadirlo, l'intendimento abrogativo si identificava nel voler eliminare "la base legale" del diritto del sindacato alla trattenuta per "restituire" la materia all'autonomia contrattuale (sindacale o individuale) – e, conseguentemente, è legittimamente percorribile; non altrettanto è a dirsi nel secondo caso in cui si supplisce alla mancanza di un accordo contrattuale con lo sforzato riferimento ad una norma di legge (art. 1260 cod. civ.) che imporrebbe comunque l'obbligo per il datore di lavoro di una trattenuta del contributo sindacale senza il consenso della parte debitrice dell'obbligazione retributiva, sicché il diritto del lavoratore (o, più pragmaticamente, del sindacato) verrebbe nuovamente fatto scaturire ex lege e, conseguentemente, non in conformità all'intendimento referendario così come inteso dalla Consulta; per cui, se si aderisse a tale conclusione, si verificherebbe che – mediante il contratto collettivo – il datore di lavoro sarebbe obbligato ad effettuare la trattenuta secondo le modalità pattuite (si ritiene in maniera meno onerosa per la riscossione) contrattualmente, mentre – "al di fuori del contratto collettivo" pure disciplinante la materia ed applicabile aziendalmente – sarebbe obbligato "nolente" a subire l'unilaterale determinazione del "lavoratore sindacato non firmatario".
In questo caso sembra evidente un'indebita interferenza nelle relazioni sindacali in quanto il risultato della contrattazione collettiva verrebbe "scavalcato" dalla determinazione unilaterale del lavoratore non aderente ai sindacati firmatari: specificamente, mentre nell'ipotesi della regolamentazione in generale sancita dal contratto collettivo di lavoro e non applicabile ex se ai lavoratori non iscritti ai sindacati firmatari o aderenti a sindacati non firmatari tale regolamentazione non viene imposta alle parti non sindacalizzate, per la materia delle trattenute dei contributi sindacali la regolamentazione collettiva avrebbe un significato del tutto marginale potendo le parti più direttamente interessate far leva sulla loro determinazione unilaterale a prescindere da un accordo contrattuale con la parte datoriale.
Siffatta conclusione si pone, inoltre, in evidente contrasto con il principio di correttezza e buona fede, che – secondo la relazione ministeriale al codice civile "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore, nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità, una volta collocato nel quadro di valori introdotto dalla Costituzione – deve essere inteso come una specificazione degli inderogabili doveri imposti dalle norme costituzionali (tra le altre, artt. 2, 3, 35, 39, 41 Cost.): la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altro, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
c . Poste le cennate premesse di carattere "particolare" e "generale", risalta chiaramente l'erroneità della sentenza della Corte di Appello che, pure ammettendo che con il ricorso alla cessione del credito ex art. 1260 cod. civ. "risorge un obbligo di collaborazione identico a quello che il referendum ha voluto far venir meno", individua la fonte del cennato obbligo "non già nella norma abrogata ma negli artt. 1260 e segg. cod. civ. che autorizzano la cessione del credito senza il consenso del debitore ceduto".
Tale ammissione conferma che la soluzione collegata al ricorso alla "cessione del credito" non si conforma all'intendimento della volontà popolare espressa dal referendum abrogativo e, più precisamente, all'intendimento precisato dalla Corte Costituzionale di eliminare la base legale dell'obbligo datoriale per restituire la materia all'autonomia contrattuale: con tale soluzione si è, in sostanza, sostituita ad una norma di legge (art. 26 della legge n. 300/1970) un'altra norma di legge (art. 1260 cod. civ.) in contrasto evidente con il risultato sancito dal referendum abrogativo dell'art. 26.
L'istituto della "cessione del credito" non è, in ogni caso, praticabile per avvalorare la cennata soluzione – ab imis errata per la fondamentale ragione dinanzi evidenziata in considerazione, altresì, di quanto ritenuto in dottrina che la cessione in generale non costituisce un autonomo tipo negoziale per coincidere con lo schema negoziale di volta in volta idoneo ad operare e a giustificare il trasferimento – in quanto: a) sussiste una incompatibilità strutturale tra l'impossibilità di una revoca immediata senza il consenso del sindacato beneficiario propria dell'istituto della cessione del credito conformemente alla sua natura che la connota come una forma di alienazione di diritti e la revocabilità immediata dell'atto volontario di contribuzione sindacale obbligatoriamente discendente dal principio di libertà sindacale ex art. 39 Cost.; b) non vi è dubbio che a causa della pretesa cessione sorgano a carico del debitore dell'obbligazione retributiva obblighi e responsabilità ulteriori rispetto a quelli che avrebbe comportato l'adempimento a favore del creditore originario, dovendo il datore di lavoro predisporre una particolare organizzazione amministrativa (diversa rispetto a quella prevista per le trattenute regolamentate dal contratto collettivo) per l'immediato versamento mensile dei contributi sindacali "ad nutum" del lavoratore sindacato interessato ed essendo lo stesso datore esposto ad una particolare forma di responsabilità (oltre, naturalmente, quella civilistica) collegata all'applicabilità dell'art. 28 della legge n. 300/1970 (sotto un profilo diverso e "concorrenziale" rispetto a quello considerato nella sentenza 19 impugnata); c) a quest'ultimo riguardo, nel caso di cd. "cessione individuale" – a favore di un sindacato-non-firmatario – del credito retributivo da parte di un lavoratore iscritto ad un sindacato firmatario di un contratto collettivo che regola la materia delle trattenute di contributi sindacali, l'obbligo ex art. 1260 cod. civ. di provvedere all'immediata trattenuta della retribuzione costringerebbe il datore di lavoro "nolente" a cessare dall'effettuare le trattenute a favore del sindacato firmatario e lo esporrebbe ad un'azione giudiziaria ex art. 28 su iniziativa di detto sindacato; d) il credito del lavoratore per retribuzione, anche se può non rientrare nell'ambito dei crediti di natura strettamente personale per i quali sussiste il divieto di cedibilità ex art. 1260, primo comma, cod. civ., dovrebbe impropriamente venire trasferito con le garanzie personali e reali ex art. 1263 cod. civ. (a differenza di quanto avviene per la delegazione di pagamento a norma dell'art. 1275 cod. civ.), quando per i crediti da lavoro occorre tenere conto dei limiti di pignorabilità ex art. 545 cod. proc. civ. in considerazione, appunto, della natura particolare-personale delle "somme dovute da privati a titolo di stipendio, salario e altre indennità relative a rapporti di lavoro o di impiego" e della necessità di garantire l'osservanza dei cennati limiti in presenza di procedure espropriative.
d. A questo punto si rileva che la qualificazione degli atti compiuti dalle parti è compito del giudice, il quale, sulla base del risultato perseguito dalle medesime con riferimento alle allegazioni fornite e nell'ambito delle singole norme di legge, ha il potere-dovere di individuare la disciplina ad essi applicabile e di inquadrarli negli schemi giuridici agli stessi compatibili.
Nel caso in esame – esclusa la possibilità di inquadrare la fattispecie della trattenuta del contributo sindacale sulla retribuzione nell'ambito della cessione di credito – lo schema più idoneo a qualificare la cennata situazione resta quello della delegazione di pagamento, che richiede il consenso del datore di lavoro-debitore e, quindi, un accordo con esso delegato alla base della possibilità per il "lavoratore-sindacato non firmatario di contratto collettivo" di ottenere che il datore di lavoro effettui la trattenuta sulla retribuzione ed il versamento dei contributi al sindacato non firmatario. In sostanza si riconduce, così, la fattispecie alla finalità prevista dalla Corte Costituzionale – di restituire, cioè, la materia all'autonomia contrattuale delle parti – poiché esclusivamente in forza di un accordo sorge il diritto del lavoratore sindacato alla trattenuta del contributo sindacale e non certo mediante una determinazione unilaterale del lavoratore-sindacato a prescindere dalla volontà del debitore ceduto [come, invece, impropriamente avverrebbe con la cessione di credito mediante cui il sindacato non firmatario tenta di recuperare il mancato consenso derivante dalla mancata accettazione (ex secondo comma dell'art. 1269 cod. civ.) della delega del lavoratore da parte del datore di lavoro o attraverso, appunto, l'escogitazione giurisprudenziale (erroneamente condivisa dal Giudice di appello) del ricorso alla disciplina dell'art. 1260 cod. civ. o attraverso l'evidente forzatura (peraltro, espressamente esclusa dalla Corte di Appello) dell'estensione della contrattazione collettiva ai lavoratori non aderenti ai sindacati firmatari].
E' da precisare che l'istituto della delegazione di pagamento [che, come da tempo statuito da questa Corte (Cass. n. 2354/1960, Cass. n. 1336/1962), si differenzia in generale dalla cessione di credito in quanto, mentre la cessione interviene tra due soli soggetti (cedente e cessionario), la delegazione presuppone il concorso di tre soggetti (delegante, delegato, delegatario)] viene adattato alla fattispecie in modo certamente peculiare – con la fondamentale precisazione che, a differenza di quanto è stato dinanzi evidenziato con riferimento all'istituto della cessione di credito, il "peculiare adattamento" avviene sicuramente in conformità all'intendimento perseguito dal referendum abrogativo del 1995 -, tenendo presente che dall'analisi del modello delegatorio degli artt. 1268 e segg. cod. civ. si evidenzia che la delegazione può essere realizzata attraverso una pluralità di distinti negozi bilaterali ed unilaterali, dotati ciascuno di una propria causa, pur se tra loro finalisticamente collegati (cfr. Cass. n. 6387/2000).
Pervero – come è stato efficacemente rilevato in dottrina – il duplice piano contrattuale (collettivo o individuale), cui esclusivamente deve essere riportato il diritto alla riscossione dei contributi sindacali mediante trattenute sulla retribuzione, impone che il sindacato, ove voglia acquisire il cennato diritto, deve essere parte del contratto collettivo che comunque regola la materia. Il diritto del singolo trae origine – sul piano individuale – come conseguenza di un accordo contrattuale che si perfeziona con la volontà del lavoratore-delegante e del datore di lavoro delegato e da cui deriva una situazione di vantaggio del "sindacato non firmatario". Il sindacato, pertanto, dovrà o essere firmatario del contratto collettivo o, in mancanza, dovrà limitarsi a fare riferimento all'accettazione da parte del datore di lavoro della delega di pagamento inviata dal lavoratore.
In questa reale constatazione ritorna attuale l'indirizzo giurisprudenziale risalente all'assetto normativo pre referendario con il ricorso specifico all'istituto della delegazione di pagamento ovvero con il riferimento ad un atto negoziale del lavoratore non avente uno specifico nomen iuris: nel senso che, venuto meno l'obbligo ex lege sancito dall'art. 26 della legge n. 300/1970, la relativa materia viene ora regolamentata in forza della contrattazione collettiva di diritto comune oppure – se la contrattazione collettiva non è comunque applicabile – mediante un negozio inquadrabile nella delegazione di pagamento con peculiare specificità.
Si conferma, in conclusione, l'erroneità della sentenza impugnata per avere il Giudice di appello inquadrato nell'istituto della "cessione di credito" la delega del lavoratore di fare effettuare dal datore di lavoro la trattenuta sulla retribuzione del contributo sindacale a favore di un sindacato-non-firmatario, per cui il ricorso proposto su tale punto dalla s.p.a. (omissis) deve essere accolto.
Deve, altresì, essere riformata la decisione della Corte torinese anche ove essa ha ritenuto azionabile ex art. 28 della legge n. 300/1970 la pretesa del sindacato-non-firmatario di ottenere il versamento del contributo sindacale a seguito di trattenuta della retribuzione del lavoratore aderente a tale sindacato, poiché "il rifiuto della società datrice di lavoro di dare attuazione ad una legittima cessione di credito chiaramente finalizzato al finanziamento del sindacato significa porre un ostacolo alla libertà sindacale … essendo sanzionabile il comportamento oggettivamente antisindacale".
Ora – a parte che, non sussistendo (come si è dinanzi statuito) nella specie una "legittima cessione di credito" – non vi è alcun inadempimento datoriale sanzionabile ex art. 28 (anche se è stato ritenuto che l'uso di strumenti in astratto leciti può risultare, nelle circostanze concrete, oggettivamente idoneo a limitare la libertà sindacale) un intervento del giudice per imporre al datore di lavoro un comportamento in contrasto o (almeno) al di fuori di guanto stabilito da un contratto collettivo applicabile in azienda [in partic., nella specie, statuendo l'obbligo a carico del datore ("nolente") di effettuare la trattenuta della retribuzione per versare il contributo sindacale a favore di un sindacato non firmatario delegato dal lavoratore quando un contratto collettivo regolamenta la materia e può avvenire che il versamento del contributo sindacale sia già avvenuto a favore di un sindacato firmatario a cui il lavoratore sia (o sia stato) associato] costituisce una indebita interferenza nelle relazioni sindacali e, sotto tale specifico aspetto rappresenterebbe un comportamento – sostanzialmente – antisindacale.
In ogni caso, nella sentenza n. 5295/1997 delle Sezioni Unite (con cui, occorre precisarlo, era stato rigettato il ricorso per cassazione proposto dalle organizzazioni sindacali originariamente ricorrenti ex art. 28) richiamata dalla Corte di Appello per ritenere sanzionabile il comportamento "oggettivamente antisindacale" sulla base che "nel caso in esame l'inconsistenza delle ragioni addotte per non dar corso alle cessioni dimostra la positiva esistenza di un intento antisindacale" veniva, tra l'altro, precisato che la sussistenza, o meno, di un intento del datore di lavoro di ledere la libertà sindacale e il diritto di sciopero "non è sufficiente in quanto tale intento non può far considerare antisindacale un'attività che non appare obiettivamente diretta a limitare la libertà sindacale": per cui, se dalle risultanze processuali non è dato evincere che la condotta del datore di lavoro non era obiettivamente idonea a violare la libertà sindacale (con il relativo onere probatorio a carico del sindacato ricorrente e di cui il giudice del merito ha l'obbligo di dare congrua e corretta motivazione nella decisione), deve escludersi la sussistenza di un comportamento antisindacale sanzionabile ex art. 28.
Nella specie, la decisione del Giudice di appello si è sviluppata unicamente sul versante dell'inquadramento della fattispecie negli schemi negoziali del diritto civile senza indicare in che modo fattualmente la condotta della società datrice di lavoro fosse realmente idonea a limitare la libertà sindacale dell'associazione ricorrente (a tale proposito non può essere seriamente considerato il cd. argomento concernente "l'inconsistenza delle ragioni addotte per non dar corso alle cessioni") e, quindi, la cennata decisione è caratterizzata da un'impostazione civilistica che, pur tenendo riguardo allo scopo assicurato dall'abrogata norma dell'ari 26 della legge n. 300/1970 di garantire al sindacato il diritto al versamento dei contributi, avrebbe potuto costituire oggetto soltanto di un autonomo giudizio ordinario e non, certo, di un procedimento speciale ex art. 28.
Di conseguenza, anche sotto tale profilo, la sentenza impugnata deve essere riformata in accoglimento delle specifiche censure proposte (specif. con il terzo motivo) dalla società ricorrente.
In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto dalla s.p.a. (omissis) deve essere integralmente accolto, per cui la sentenza del Tribunale di Torino impugnata deve essere cassata e decidendo nel merito ex art. 384 (ult. alinea del primo comma) cod. proc. civ. poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto va revocato il decreto opposto emesso ex art. 28 della legge n. 300/1970 dal Pretore di Torino in data 29 marzo 1999. Ricorrono giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese dell'intero giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito revoca il decreto emesso ex art. 28 della legge n. 300/1970 dal Pretore di Torino in data 29 marzo 1999; compensa tra le parti le spese dell'intero giudizio.