PROCEDIMENTO DISCIPLINARE – TEMPESTIVITA' DEL LICENZIAMENTO IN RELAZIONE ALLA CONTESTAZIONE DELL'ADDEBITO
(Sezione Lavoro – Presidente G. Sciarelli – Relatore G. Mazzarella)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza di cui in epigrafe, e qui impugnata, la Corte di Appello di Bari, rigettava l'appello proposto dalla (omissis), oggi (omissis) avverso la sentenza del tribunale di Foggia, il quale a sua volta aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla detta Associazione al proprio dipendente U. F., e aveva condannato l'Associazione stessa alla reintegrazione del F. nel proprio posto di lavoro, e al risarcimento del danno in favore dello stesso in misura delle retribuzioni medio tempore maturate, oltre accessori e spese processuali. Aveva, a sua volta, ritenuto il Tribunale che il licenziamento impugnato aveva natura ontologicamente disciplinare, e quindi assoggettabile alla procedura ex art. 7 della legge n. 300 del 1970, nella ipotesi non applicata nei termini di legge.
Osservava, in sintesi, il Tribunale, per quanto ancora di rilievo: l'Associazione non poteva annoverarsi nella categoria delle cd. organizzazioni di tendenza. cui, ai sensi dell'art. 4 della legge n. 108 del 1990, non era applicabile la disciplina vincolistica sulla tutela reale; deponevano per detta esclusione, nonostante l'espressa previsione della mancanza di fine lucrativo di cui allo Statuto, gli scopi dell'Associazione desumibili dallo Statuto stesso, la natura delle attività svolte, le esemplificazioni degli interventi programmati, l'approntamento di strutture di notevole importanza e di idonei mezzi operativi, la partecipazione diretta a società agricole, la dimensione della forza di lavoro negli ultimi anni sempre superiore a cinque unità, le previsioni organizzative e professionali; ai fini della correttezza della procedura, peraltro correttamente avviata per l'avviso di ulteriori provvedimenti, non era necessaria la convocazione del lavoratore per l'audizione orale; l'Associazione, dopo la contestazione, aveva rispettato il termine previsto dalla legge donde la non necessaria indicazione nelle contestazioni per la intimazione del licenziamento; le contestazioni di assenze ingiustificate erano state puntuali e con i necessari riferimenti per la individuazione di esse; il licenziamento era stato coerente con le contestazioni; tuttavia, il licenziamento era stato formulato e comunicato ad oltre due mesi dall'ultima contestazione, se non proprio a tre mesi dal telegramma del dipendente del 14 settembre 1998, né si rinvenivano agli atti, e nella prova dedotta, validi motivi, oltre generiche e non provate indicazioni sugli accertamenti a farsi, della mancata immediatezza del licenziamento, così contravvenendo la società ai principi di correttezza e buona fede dell'adozione del provvedimento; in realtà, il licenziamento era anche ingiustificato, atteso l'esito della consulenza tecnica disposta ed eseguita in primo grado, dalla quale si desumeva l'assenza di pretestuosità della resistenza del lavoratore ad occupare per l'espletamento del proprio lavoro un fabbricato in effetti non idoneo.
Ricorre per cassazione la (omissis), già (omissis) affidandosi a tre motivi di censura.
F. U. si è costituito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato a due motivi di censura.
La (omissis), non si è costituita avverso il ricorso incidentale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi, essendo essi proposti avverso la medesima sentenza.
Con il primo motivo di ricorso principale la (omissis) denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 4 della legge n. 108 del 1990, 2082 e 2135 c.c., in combinazione fra loro, e 18 e 35 della legge n. 300 del 1970, il tutto in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c..
Si sostiene nel ricorso, in sintesi: dallo stesso Statuto emergeva che l'Associazione, pur avendo indiretti e marginali connotati economici, non perseguiva finalità di lucro, essendo l'attività di essa "diretta a precipui scopi assistenziali, di solidarietà di tipo professionale e di istruzione culturale per la categoria specificamente rappresentata (produttori agricoli e ortofrutticoli) nel settore di appartenenza (agricoltura)"; le modalità organizzative non valevano a snaturare e stravolgere la natura dell'attività esercitata, "non teleologicamente preordinata al perseguimento dello scopo di lucro", "svolta, se pur marginalmente con modalità imprenditoriali" "solo, ed esclusivamente, in favore degli associati e, segnatamente, di una certa categoria professionale", ed alla quale era estranea quella "di prestazione ed erogazione di servizi e beni in favore di terzi non iscritti e non appartenenti alla categoria summenzionata", come si rilevava dagli estratti conto dei conferimenti di pomodori esibiti in giudizio, e, a torto, ritenuti dal giudice "irrilevanti e non probanti"; l'art. 35 della legge n. 300 del 1970 prevedeva l'applicazione della tutela reale alle sole attività produttive e di scambio di beni e di servizi, ed esercitate con prevalente organizzazione imprenditoriale; il requisito dimensionale dell'Associazione all'epoca del licenziamento non superava il numero di cinque unità, ancorché in epoca di gran lunga antecedente fosse anche superiore a tale dato; l'operaia agricola stagionale e quindi senza la stabilità del posto, assunta peraltro successivamente al licenziamento, non era computabile.
Il motivo in parte è inammissibile e in parte è infondato.
E' decisamente inammissibile il motivo nella parte in cui si censura la sentenza impugnata nella esclusione della dedotta natura di organizzazione di tendenza dell'allora Associazione, oggi società cooperativa a responsabilità limitata, al fine della disapplicazione nel caso di specie della tutela cd. reale di cui alla legge n. 300 del 1970.
La sentenza impugnata, esaminando analiticamente lo Statuto dell'Associazione, estrapola gli elementi dai quali, in parte per combinazione di essi, in parte per valenza anche individuale, desume la natura imprenditoriale del soggetto in questione. Per contro, nel ricorso, premettendo la espressa esclusione del fine di lucro ai sensi dell'art, 4 del medesimo Statuto, e con successivo riferimento ad altri scopi dell'Associazione indicati dal medesimo art. 4, individua ulteriori elementi a significativo sostegno della propria tesi, riconfermata della esclusione del fine di lucro, e delle finalità, invece, di "precipui scopi assistenziali, di solidarietà di tipo professionale e di istruzione culturale per la categoria specificamente rappresentata (produttori agricoli e ortofrutticoli) nel settore di appartenenza (agricoltura)".
Orbene, la prospettazione della censura non può ritenersi sufficiente allo scopo.
Come si legge anche in ricorso ("dall'attenta lettura dello Statuto di (omissis) risulta, invero" etc.) è proprio la lettura dello Statuto in questione che resta impedita al Collegio, per non essere stato riportato il testo, anche nella sua organicità redazionale, o quanto meno nelle parti essenziali di esso, tenuto conto che, anche se degli opposti elementi denunziati in ricorso non si intenderebbe disconoscersi l'esistenza, non sarebbe, tuttavia, per ciò stesso anche ravvisabile che essi ne esaurissero comunque i compiti, e non fossero, cioè, ad essi contemporaneamente affiancati altri e di diverso tenore. E ciò, tanto più in quanto, a ben vedere, nella sentenza impugnata si fa riferimento anche ad ulteriori elementi di fatto definitivamente accertamenti, estranei al testo dello Statuto (consistenza della (omissis) con impianto di 13.600 m.q., dei quali 2.000 coperti, celle frigorifere della capienza di 2.900 m.c., inquadramento ai fini contributivi come azienda agricola, partecipazioni dirette in società specializzate nella lavorazione e commercializzazione di prodotti ortofrutticoli allo stato fresco, assunzione di operai stagionali in numero notevole in relazione ad operazioni produttive stagionali), dai quali il giudice di appello, in una ad altri elementi, come già si è detto, desumibili direttamente dal citato testo, fa scaturire il libero convincimento della natura imprenditoriale del soggetto. Nè, peraltro, conforta più che tanto la ripetuta circostanza (quasi a premessa di un indirizzo interpretativo dell'intero complesso operativo e organizzativo elementi, nello specifico, richiamati in sentenza) della espressa esclusione del fine di lucro, atteso che proprio tale requisito, la cui esistenza costituisce certo elemento di valutazione ai fini della imprenditorialità dell'azienda, non depone altrettanto certamente per l'opposto in caso di sua assenza, quando siano contemporaneamente presenti i requisiti di cui all'art. 2082 c.c., fra i quali l'esercizio di un'attività esercitata con metodo economico e allo scopo del pareggiamento di bilancio, anche in presenza di un fine ideologico tendenzialmente assolto.
Va da sé che, pertanto, la impossibilità di una lettura complessiva, ed, ancor più, organica, dell'atto statutario dell'Associazione impedisce alla Corte quella indagine di merito sulla decisività delle circostanze addotte in rapporto alla esclusione dell'applicabilità della tutela reale al soggetto in esame, che, sola, giustifica l'annullamento della sentenza e il rinvio per nuove indagini e/o rivalutazioni degli elementi di causa al giudice a tanto preposto.
Il primo motivo di ricorso è, invece, infondato quanto alla statuizione del riconosciuto requisito dimensionale di oltre cinque dipendenti riconducibile alla imprese agricole.
La chiarezza dei motivi addotti dal giudice di merito sul punto non sembra affatto incrinata dalla censura. La sentenza assume che "dal libro matricola si ricava che il F. lavorava insieme ad altri quattro impiegate, e che era stata documentata l'ulteriore "assunzione di operai stagionali in numero pari o superiore a 49 in ciascuno dei primi tre mesi del 1999", con inizio dal 9 gennaio 1999 (vedi dichiarazione autocertificativa del Presidente della (omissis)); dunque alla data del licenziamento (21 gennaio 1999) la forza lavorativa era quanto meno di sei unità e comunque notevolmente superiore nel periodo. La censura, a sua volta, e senza alcun elemento di sostegno, retrodata il licenziamento alla data del 9 gennaio 1999 (la stessa dell'assunzione della prima operaia) e si duole, ma non censura ai sensi dell'art. 360 c.p.c., della inspiegabile argomentazione motivazionale circa l'asserito riferimento, certamente, come si è visto, non esaustivo, del giudice di merito ad un, peraltro confermativo, programma operativo proveniente dalla medesima Associazione.
Con il secondo motivo di ricorso principale la (omissis) denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 4 della legge n. 108 del 1990, e 2082 e 2135, in combinazione fra loro, c.c., e 18 e 35 della legge n. 300 del 1970, il tutto in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c..
Si sostiene nel ricorso, in sintesi: evidentemente contraddittoria era, da un lato, l'affermazione della sentenza impugnata in ordine alla correttezza della procedura posta in opera dalla società per il licenziamento, e, dall'altro, l'assenza del requisito della immediatezza del provvedimento in relazione all'ultima contestazione del comportamento sanzionabile; era, comunque, inconciliabile il contemporaneo accertamento della non criticabilità della procedura e della violazione dei principi di correttezza e buona fede, oltre che giuridicamente infondata la pretesa di una valenza di detti principi, in presenza di una condotta normativamente tipizzata, e come tale esigibile; l'affermata assenza della immediatezza del licenziamento, pertanto, era immotivata, ed anche priva di qualsiasi fondamento, essendo il ritardo ampiamente giustificato dalle verifiche, indagini, e sopralluoghi, anche a mezzo di consulenza tecnica sulle condizioni del posto di lavoro.
Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata, dopo aver ritenuto corrette le contestazioni effettuate a mezzo telegramma, si è pronunciata nel senso della illegittimità del provvedimento espulsivo, perché adottato non nei termini della necessaria immediatezza e quindi nel rispetto della regole generali della correttezza e buona fede.
La denuncia di contraddittoria motivazione tra, da un lato, l'affermazione del corretto espletamento della procedura ex art. 7 della legge n. 300 del 1970 da parte dell'Associazione, e, dall'altro, l'immediatamente posteriore rilievo della tardività del licenziamento non può ritenersi minimamente pertinente. Dalle espressioni letterali della sentenza ("deve considerarsi ritualmente avviata la procedura regolata dall'art. 7 dello Statuto nelle sue fasi essenziali ") e dal contesto delle argomentazioni svolte si rileva senza ombra di dubbio che la correttezza dell'avvio della procedura si riferiva proprio a quella fase di essa non ancora interessata dal provvedimento espulsivo, essendosi, il giudice di appello, intrattenuto fino a quel momento sulla completezza delle contestazioni per telegrammi, sul rispetto dei termini delle censure in relazione agli inadempimenti accertati ed addebitati, sull'omesso invito al lavoratore per essere ascoltato sui fatti, e sulla irrilevanza del (evidentemente eccepito) mancato avviso del termine a discolpa.
Sta di fatto, comunque, che la statuizione di tardività del licenziamento, risulta congruamente e logicamente motivata, tenuto conto che il licenziamento è intervenuto a scadenza abbondante dai due mesi dell'ultima contestazione, e la spiegazione del ritardo, connessa ad una procedura di accertamento delle condizioni di sicurezza, di idoneità e di igiene del fabbricato nel quale era stato destinato ad espletare la sua attività il F. condizioni contestate già con telegramma del lavoratore il 14 settembre 1998 appariva un mero pretesto e non costituiva verosimile scusante del ritardo nell'adozione del provvedimento.
Con il terzo motivo di ricorso principale la (omissis). denuncia violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.. Si sostiene in ricorso che la domanda sulla ingiustificatezza del licenziamento non era mai stata introdotta in giudizio, e la sentenza di primo grado si era espressa solo sulla questione preliminare relativa alla legittimità formale del licenziamento in relazione alla procedura di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970.
La doglianza relativa alla ritenuta giustificatezza del provvedimento espulsivo, censurata ai sensi dell'art. 112 c.p.c., a questo punto, deve ritenersi assorbita. Le argomentazioni della sentenza in proposito sono decisamente irrilevanti sull'esito del giudizio.
Con il primo motivo di ricorso incidentale F. U. denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e 2106 e 2705 c.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte e/o rilevabile di ufficio, il tutto in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c..
Si deduce, in sintesi: le cd. contestazioni di addebito, effettuate a mezzo telegramma, erano prive degli elementi necessari alla individuazione del soggetto procedente ed a quale titolo, nè era stata mai di esse depositato o in altro modo comunicato l'originario testo con la relativa sottoscrizione; dagli stessi telegrammi, peraltro, non era possibile desumere la volontà dell'Associazione dell'apertura di un vero e proprio procedimento disciplinare, né, ancora, la individuazione dei presunti illeciti addebitati in termini di tempi e durata degli episodi cui si riferivano, e se rilevanti sotto il profilo disciplinare, ed in violazione di quale normativa.
Il motivo è inammissibile.
Le censure prospettate non sono rispettose del principio della rilevanza in ordine al loro esame, tenuto conto che il dispositivo di sentenza, confermato in questa sede, lascia il F. soddisfatto in tutte le domande proposte.
Con il secondo motivo di ricorso incidentale F. U. denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte e/o rilevabile di ufficio, il tutto in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c..
Si deduce in proposito che il rigetto dell'appello proposto dall'Associazione avrebbe dovuto comportare, in base al principio della soccombenza, la condanna quanto meno parziale dell'appellante al pagamento delle spese processuali del doppio grado del giudizio in luogo di una disposta dichiarazione di integrale compensazione, in base al principio che le spese di lite non potevano essere poste a carico della parte totalmente o quasi integralmente vittoriosa.
Il motivo è infondato.
"La valutazione dell'opportunità della compensazione totale o parziale delle spese processuali, sia nell'ipotesi di soccombenza reciproca sia in quella della ricorrenza di altri giusti motivi, rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiede specifica motivazione, restando perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che risulti violato il principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa ovvero che a fondamento della decisione del giudice di merito di compensare le spese siano addotte ragioni palesemente illogiche e tali da inficiare. per la loro inconsistenza o palese erroneità, lo stesso processo formativo della volontà decisionale" (Cass. 27.04.2000, n. 05390).
Il principio testè riportato, dal quale questo Collegio non ritiene di discostarsi, appartenendo esso a consolidato orientamento della Corte, deve applicarsi al caso di specie, non ostando certamente le prospettate censure, che sono, invece, affidate proprio all'irrilevante concetto della soccombenza e a quello, insindacabile, della omessa indicazione dei motivi circa la opportunità della compensazione delle spese di lite.
I ricorsi, così riuniti, pertanto, vanno rigettati.
Attesa la reciproca soccombenza in questa sede le spese del giudizio di cassazione vanno dichiarate interamente compensate tra le parti.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.