Colpa professionale del medico e onere della prova.

di | 28 Maggio 2004
Spetta al medico provare che il caso è di particolare difficoltà, e al paziente quali siano state le modalità di esecuzione inidonee ovvero a questi spetta provare che l'intervento è di facile esecuzione e al medico che l'insuccesso non sia dipeso da suo difetto di diligenza è quanto stabilito dalla III Sez. della Suprema Corte con la Sentenza n. 10297 del 28 maggio 2004

Cassazione

Sezione Terza Civile

Sentenza 28 maggio 2004 n. 10297

(Presidente G. Fiduccia – Relatore G. Manzo)

 

Svolgimento del processo

C. M. e M. P., in proprìo e quali genitori esercenti la potestà sul minore (omissis), convenivano avanti al Tribunale di Bologna il prof. G. P. e l'Unità Sanitaria Locale (omissis) per sentirne pronunciare la condanna in solido al risarcimento dei danni conseguenti alla paralisi ostetrica dell'arto superiore destro subita da (omissis) in occasione del parto, avvenuto il 14 dicembre 1979, la cui responsabilità assumevano fosse da ascrivere all'operato del prof. P.. I convenuti si costituivano contestando il fondamento della domanda. Il Tribunale respingeva la domanda. Proponevano appello C. M. e M. P., nonché (omissis), nel frattempo divenuto maggiorenne, chiedendo che, in riforma dell'impugnata sentenza, venisse pronunciata condanna al risarcimento dei danni del prof. P., in solido con l'Unità Sanitaria Locale (omissis), e quindi, a seguito della soppressione ex lege di questa, con la Regione Emilia Romagna, ovvero, in alternativa, con l'Azienda Ospedaliera di Bologna Policlinico (omissis), in persona del Direttore Generale in carica, anche quale commissario liquidatore della gestione della soppressa USL (omissis). Rimaneva contumace la sola U.S.L. (omissis), mentre si costituivano tutti gli altri appellati, che chiedevano il rigetto dell'appello. In particolare, la Regione Emilia Romagna e l'Azienda Ospedaliera (omissis) eccepivano il proprio difetto di legittimazione passiva; l'azienda eccepiva altresì la nullità assoluta della citazione in appello; il P. svolgeva appello incidentale relativamente alle spese di primo grado. La Corte d'Appello dichiarava la nullità dell'atto di citazione in appello nei confronti della U.S.L. (omissis), trattandosi di soggetto inesistente; rigettava l'appello principale nei confronti dell'Azienda Ospedaliera di Bologna Policlinico (omissis), perché carente di legittimazione passiva, e nei confronti del prof. P. e della Regione Emilia Romagna perché infondato; rigettava l'appello incidentale proposto dal prof. P..

Avverso questa sentenza (omissis), C. M. e M. P. propongono ricorso per cassazione affidato a sei motivi. Resistono con controricorso il Prof. P., L'Azienda Ospedaliera (omissis) e la Regione Emilia Romagna, che svolge anche appello incidentale condizionato fondato su due motivi. I ricorrenti principali e la Regione Emilia Romagna hanno presentato memoria. Gli altri intimati non hanno svolto difese.

Motivi della decisione

1. Il ricorso principale e quello incidentale devono essere riuniti a norma dell'art. 335 c.p.c.

2. Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti principali lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2729, 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. La Corte d'Appello di Bologna, dopo aver correttamente definito di natura contrattuale la responsabilità dell'ente ospedaliero (e implicitamente anche come contrattuale la responsabilità del medico), aveva erroneamente posto in capo al creditore l'onere della prova sull'esistenza della colpa, ritenendo che se il debitore dovesse dimostrare l'assenza di colpa, affronterebbe una prova negativa che non gli compete.

L'errore consisteva nell'aver ritenuto prova negativa quella dell'assenza di colpa, non considerando che per l'art. 1218 c.c. la prova di non aver potuto adempiere esattamente l'obbligazione è a carico del debitore. Né la distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi fa venir meno questo principio, poiché anche nell'obbligazione di mezzi il debitore è tenuto all'obbligo di condotta diligente senza omettere qualsiasi attività idonea all'obbligo da lui assunto. Nel caso di specie la prova (positiva) dell'assenza di colpa avrebbe potuto essere agevolmente fornita mediante la dimostrazione che la condotta dell'operatore si era uniformata alle regole che la scienza medica prescrive per il trattamento dei casi (distocia di spalla) quale quello presentatosi.

2.2. Il motivo è fondato.

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità dell'ente ospedaliero nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141; Cass. 8 marzo 1979,n. 1716; Cass. 1 marzo 1988, n. 2144; Cass. 4 agosto 1988, n. 6707; Cass.27 maggio 1993,n.5939; Cass.11.4.1995, n. 4152; Cass. 27 luglio 1998, n. 7336; 2 dicembre 1998, n. 12233; Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in motiv.; Cass. 1° settembre 1999, n. 9198; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; 21 luglio 2003, n. 11316, in motiv). A sua volta anche l'obbligazione del medico dipendente dall'ente ospedaliero nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589).

La responsabilità sia del medico che dell'ente ospedaliero per inesatto adempimento della prestazione ha dunque natura contrattuale ed è quella tipica del professionista, con la conseguenza che trovano applicazione il regime proprio di questo tipo di responsabilità quanto alla ripartizione dell'onere della prova e i principi delle obbligazioni da contratto d'opera intellettuale professionale relativamente alla diligenza e al grado della colpa.

2.3. Trattandosi di obbligazioni inerenti all'esercizio di attività professionali, la diligenza nell'adempimento deve valutarsi, a norma dell'art. 1176, secondo comma, con riguardo alla natura dell'attività esercitata. Dispone poi l'art. 2236 c.c. che se la prestazione implica la soluzione di problemi di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso dì dolo e colpa grave.

Gli artt. 1176 e 2236 c.c. esprimono dunque l'unitario concetto secondo cui il grado di diligenza dev'essere valutato con riguardo alla difficoltà della prestazione resa. E la colpa è inosservanza della diligenza richiesta.

L'obbligazione assunta dal professionista consiste in un'obbligazione di mezzi, cioè in un'attività indirizzata ad un risultato. Il mancato raggiungimento del risultato non determina inadempimento (v. Cass. 26 febbraio 2003 n. 2836). L'inadempimento (o l'inesatto adempimento) consiste nell'aver tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiesta, mentre il mancato raggiungimento del risultato può costituire danno consequenziale alla non diligente prestazione o alla colpevole omissione dell'attività sanitaria.

2.4. In tema di onere della prova nelle controversie di responsabilità professionale, questa Corte ha più volte enunciato il principio secondo cui quando l'intervento da cui è derivato il danno non è di difficile esecuzione, la dimostrazione da parte del paziente dell'aggravamento della sua situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie è idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all'inadeguata o negligente prestazione, spettando all'obbligato fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141; Cass. 16 novembre 1988, n. 6220; 11 marzo 2002, n. 3492.

Più specificamente, l'onere della prova è stato ripartito tra le parti nel senso che spetta al medico provare che il caso è di particolare difficoltà e al paziente quali siano state le modalità di esecuzione inidonee ovvero a questi spetta provare che l'intervento è di facile esecuzione e al medico che l'insuccesso non sia dipeso da suo difetto di diligenza (Cass. 19 maggio 1999, n. 4852; Cass. 4 febbraio 1998, n. 1127; Cass. 30 maggio 1996, n. 5005; Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335; 16 novembre 1988, n. 6220; altre).

2.5. I risultati sopra riassunti ai quali è pervenuta la giurisprudenza di legittimità vanno oggi riletti alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio condiviso dal Collegio secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.

Analogo principio è stato enunciato con riguardo all'inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.

Applicando questo principio all'onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico deve affermarsi che il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l'inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento.

Più precisamente, consistendo l'obbligazione professionale in un'obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l'esistenza del contratto e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento, restando a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.

La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell'onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà.

Porre a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova dell'esatto adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno a quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla. Infatti, nell'obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell'inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. In queste obbligazioni in cui l'oggetto è l'attività, l'inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio che la prova sia "vicina" a chi ha eseguito la prestazione; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell'inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto.

2.6. A proposito della distribuzione dell'onere della prova, la Corte d'appello ha rilevato che non era sostenibile che, spettando al debitore l'onere di provare il corretto adempimento della prestazione, l'istituto di cura avrebbe dovuto provare che gli operatori ad esso preposti avevano agito in maniera immune da colpa, "perché in tal modo si ricondurrebbe la prova al mancato raggiungimento del risultato, che non costituisce oggetto dell'obbligazione, e si richiederebbe la formulazione di una prova negativa, quale la mancanza di errore o colpa dell'operatore". E' quindi pervenuta alla conclusione che l'ente ospedaliero adempie la propria obbligazione dimostrando di aver predisposto in maniera ottimale tutti i servizi e di essersi avvalso di personale idoneo e competente; "ma il suo onere non potrà mai spingersi a provare che la concreta attività posta in essere da tale personale è stata nel caso concreto, immune da colpa, perché in tal modo si verrebbe a gravare l'ente medesimo di una prova negativa quale è l'assenza di errori".

Avuto riguardo a quanto sopra si è detto circa la distribuzione dell'onere della prova, appare evidente che le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di merito appaiono errate, dovendosi in materia fare applicazione del principio sopra enunciato. L'assenza di colpa si prova poi dimostrando che la prestazione è stata eseguita con la diligenza richiesta.

E' poi opportuno ulteriormente precisare sul punto che la responsabilità dell'ente ospedaliero ha natura contrattuale anche per quanto concerne il comportamento dei medici dipendenti. Questa responsabilità è conseguenza dell'applicazione dell'art. 1228 c.c. secondo cui il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si avvale dell'opera di terzi risponde dei fatti dolosi e colposi di questi (Cass. 4 marzo 2004, n. 4400; Cass. 8 gennaio 1999, n. 103).

3. Con il secondo motivo i ricorrenti principali deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 2236 e 1176 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. e il vizio di motivazione della sentenza impugnata. La Corte territoriale aveva ritenuto che l'alto tasso di esiti negativi nella distocia della spalla valeva a conferma del parere dei C.T.U., secondo i quali l'azione del prof. P. rientrava nell'ambito di quella particola re difficoltà di cui all'art. 2236 c.c., che prevede la responsabilità del prestatore d'opera solo in caso di dolo o colpa grave. Ma far dipendere la speciale difficoltà "dall'alto tasso di esiti negativi della distocia " è errato, poiché prende in considerazione, anziché i mezzi e i metodi attuati dal professionista, l'eventuale e incerto risultato; cioè un indice (del tutto indeterminato) che non ha nulla a che fare con la speciale difficoltà. La giurisprudenza di legittimità ha da tempo individuato quale sia il grado della speciale difficoltà dei problemi tecnici soprattutto nel campo della responsabilità dei medici riscontrandola laddove il caso non sia stato in precedenza adeguata mente studiato o sperimentato o quando nella scienza medica siano stati discussi sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi e incompatibili tra loro. In conclusione, la soluzione accolta dal la sentenza impugnata mostra al riguardo un'obbiettiva deficienza di criterio logico nella formazione del suo convincimento ed incorre quindi nel vizio motivazione.

Anche questo motivo è fondato.

Questa Corte ha specificato che l'intervento implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà evenienza che limita la responsabilità del medico al dolo e alla colpa grave a norma dell'art. 2236 c.c. è quello che richiede notevole abilità, implica la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità e comporta un largo margine di rischi (v. per es. Cass. 16 novembre 1988, n. 6220; Cass. 26 marzo 1990, n. 2428; Cass. 19 maggio 1999, n. 4852; Cass. 10 maggio 2000, n. 5945).

L'accertamento relativo al se la prestazione professionale in concreto eseguita implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà è rimessa al giudice di merito è il relativo giudizio è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato (Cass. 14 agosto 1997, n. 7618).

Nel caso di specie la Corte territoriale ha ritenuto che l'intervento rientrava nell'ambito della particolare difficoltà prevista dall'art. 2236 c.c. e ha motivato questo convincimento facendo riferimento all'"alto tasso di esiti negativi nella distocia di spalla", che valeva a confermare "il parere chiaramente espresso dai C.T.U."

Questa motivazione è insufficiente.

L'alto tasso di esiti negativi di un certo intervento non costituisce circostanza di significato univoco circa la sussistenza della particolare difficoltà nello svolgimento della prestazione medica, poiché potrebbe riguardare la patologia sulla quale si interviene piuttosto che le modalità di intervento, rispetto alle quali si misura la diligenza richiesta. Certamente il margine di rischio dell'intervento può essere considerato nella valutazione globale della particolare difficoltà dell'intervento, ma di per sé non può costituire elemento decisivo, dovendosi comunque fare anche e soprattutto riferimento alla prestazione che il sanitario rende. Il richiamo poi al parere del C.T.U. è privo di significato, non essendo riportato neppure in estrema sintesi quale sia stato questo parere.

Su questo aspetto dunque occorrerà un nuovo esame da parte del giudice di rinvio.

4. Con il terzo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2236, 1176, 1218 e 2697 c.c. e degli artt. 115 116 c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p. c. I ricorrenti rilevano che secondo la giurisprudenza di legittimità la limitazione di responsabilità professionale del medico chirurgo ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2236 C.C., attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell'imprudenza e della negligenza. Osservano quindi che i convenuti non avevano provato che il prof. P. avesse posto in essere alcuna delle manovre descritte dalla letteratura scientifica: né quella di Kristeller, né quella di Jacquemier, né altra fra quelle codificate, e neppure quella innominata, che i CTU assimilano alla manovra di Woods. Il giudice d'appello aveva svolto al riguardo un ragionamento meramente tautologico ed incoerente, circoscritto alla generica osservazione secondo la quale "certamente una qualche manovra venne compiuta", ed aveva addirittura concluso affermando "che la stessa presenza della lesione dimostra l'effettuazione di una qualche manovra". Tale ragionamento era privo di logica, dal momento che non aveva considerato quale modalità in concreto era stata seguita nella trazione e si risolveva nel vizio di difetto di motivazione. Spettava dunque al medico la prova di aver effettuato nel suo intervento le specifiche manovre necessarie quale mezzo al fine di facilitare il parto, mentre il giudice, non potendo presumere la loro esecuzione attraverso la generica ed indeterminata supposizione della loro effettuazione, era caduto nel vizio di motivazione.

Con il quarto motivo i ricorrenti incidentali lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 2236 c.c. e degli artt. 115 116 c.p.c. in relazione all'art. 360 n . 5 c.p.c. Era stata comunque data dagli attuali ricorrenti la prova della esecuzione da parte del prof. P. di modalità di intervento non idonee. Era stato infatti dimostrato che nessuna delle manovre in senso stretto descritte nella letteratura medica era stata posta in essere dal prof. P.. La Corte territoriale aveva confuso tali manovre con l'episiotomia (ampliamento chirurgico dell'anello vulvare), che costituisce approccio indispensabile al trattamento della distocia della spalla, nel senso che non è possibile effettuare una qualsiasi delle manovre descritte dalla letteratura medica se prima non si è praticata l'episiotomia. Il prof. P. non aveva praticato l'episiotomia e ciò dimostrava inequivocabilmente che non aveva trattato la distocia della spalla con nessuno dei metodi descritti dalla letteratura specialistica.

4.1. I due motivi, che per ragioni di connessione possono essere trattati congiuntamente, sono fondati nei termini appresso indicati.

La Corte d'appello di Bologna ha ritenuto infondato il secondo motivo dell'appello principale con il quale si lamentava che la mancata effettuazione della episiotomia e la mancata indicazione, nella cartella clinica di una qualsiasi manovra volta ad agevolare l'espulsione del feto dimostravano l'assoluta inattività e quindi l'atteggiamento omissivo del prof. P.. Lo ha rigettato sul rilievo che "certamente una qualche manovra venne compiuta" e "che la stessa presenza della lesione dimostra(va) l'effettuazione di una qualche manovra".

Anche in questo caso le ragioni espresse dalla Corte di merito non lasciano individuare il criterio posto a base della decisione né comprendere il percorso logico seguito. Ciò che si doveva accertare è se era stata compiuta o meno la corretta manovra richiesta dalle evenienze del caso e, eventualmente, se questa manovra fosse o meno necessaria. L'affermazione che una "qualche" manovra era stata compiuta è circostanza priva di significato per valutare la diligenza del medico. E' poi addirittura incomprensibile la deduzione logica con la quale si desume l'esistenza di una "qualche" manovra dalla presenza della lesione, elevata in tal modo a criterio di valutazione della diligenza.

Sussiste dunque il vizio di motivazione denunziato. Ed anche su questo aspetto il giudice del rinvio dovrà compiere una nuova valutazione.

5. Il quinto motivo di ricorso (con il quale si lamenta la falsa applicazione degli artt.61,115,116 c.p.c. e il vizio di motivazione, per non essersi la Corte di merito fatta carico delle critiche espresse alla consulenza tecnica) e il sesto motivo (con il quale si fa valere la violazione dell' art. 2043 e il vizio di motivazione, considerando la responsabilità del prof. P. anche a titolo di responsabilità extracontrattuale) restano assorbiti dall'accoglimento dei primi quattro motivi del ricorso.

6. La Regione Emilia Romagna con il ricorso incidentale svolge un unico articolato motivo con il quale, deducendo la violazione dell'art. 6 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e degli artt. 1 e 2 della legge 11 febbraio 1997, n. 21, lamenta il rigetto dell'eccezione del proprio difetto di legittimazione passiva. Il motivo si articola in distinte doglianze.

Con una prima doglianza la ricorrente incidentale, richiamato l'art. 6 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, rileva che la titolarità passiva dei rapporti giuridici sorti in capo alle USL spetta alle gestioni liquidatorie, soggetti dotati di autonomia contabile, amministrativa e finanziaria, la rappresentanza delle quali è esercitata da commissari liquidatori, individuati nei direttori generali delle ASL. Rispetto a questa situazione la Regione è tenuta solo a dotare le gestioni liquidatorie dei mezzi finanziari necessari ad estinguere le obbligazioni, senza che ciò determini una sua legittimazione alle pretese di terzi.

Con una seconda doglianza la ricorrente incidentale deduce che l'art. 6 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 deve essere interpretato nel senso di ritenere che l'obbligo delle regioni di mettere a disposizione delle gestioni liquidatorie i mezzi finanziari atti ad estinguere i debiti gravanti sulle USL è limitato alle risorse necessarie ad estinguere le obbligazioni nascenti da contratti di fornitura di appalto e di servizi, con esclusione dei debiti che, come quello in esame, traggono origine da diversi fatti. Questa conclusione sarebbe suffragata dalla successiva normativa statale e regionale (legge 11 febbraio 1997 n. 21 e legge Regione Emilia Romagna 9 luglio 1997 n. 21), che, nel finanzia re l'obbligo di legge previsto dall'art. 6 e nell'autorizzare il Ministero del tesoro e le regioni a contrarre mutui anche in deroga alle vigenti norme di legge, fa riferimento solo al "disavanzo di parte corrente del servizio sanitario regionale", vale a dire alle obbligazioni "connesse con il normale svolgimento dell'attività (dell'ente)".

Un'interpretazione estensiva dell'art. 6 legge 23 dicembre 1994 n. 724, tale da imporre alle regioni l'obbligo di fornire i mezzi necessari ad estinguere tutte le obbligazioni delle USL cioè non solo quelle concernenti i debiti per prestazioni di servizi o forniture, ma anche quelle imprevedibili, connesse ad ipotesi di responsabilità si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali della copertura finanziaria delle leggi di spesa nonché dell'autonomia finanziaria regionale di cui agli artt. 81 comma 4° Cost e 119 Cost.

Con altra doglianza la ricorrente incidentale deduce che avendo la Regione provveduto ad erogare le risorse alle aziende sanitarie locali e alle aziende ospedaliere, queste disporrebbero dei fondi necessari per poter provvedere all'estinzione delle passività relative al periodo antecedente al 31 dicembre 1994, sicché ben potrebbe affermarsi che la Regione Emilia Romagna, avendo ormai esaurito il proprio compito di ente finanziatore (per quanto concerne i finanziamenti regionali di cui alla legge regionale n. 21 del 1997) ed apprestandosi ad esaurire quello di ente erogatore (relativamente ai fondi statali), non possa essere ritenuta il legittimo destinatario di pretese creditorie ulteriori rispetto a quelle già fatte oggetto delle operazioni di ricognizione ai sensi della legge statale n. 21 del 1997.

6.1. Il motivo è privo di fondamento.

La questione dei rapporti successori tra soppresse USL e neocostituite aziende sanitarie è stata diffusamente trattata e risolta dalla giurisprudenza di questa S C. (cfr. soprattutto Cass. S.U. 6 marzo 1997, n 1989, alla quale tutta la giurisprudenza successiva s'è adeguata) nel senso che, in virtù del d. lgs. n 502 del 1992 e della legge n. 724 del 1994 è stata realizzata una sorta di successione ex lege delle regioni nei rapporti obbligatori già di pertinenza delle soppresse USL, le quali proseguono la loro attività attraverso le apposite gestioni stralcio. La regione è il soggetto giuridico obbligato ad assumere integralmente a proprio carico i debiti relativi alle pregresse gestioni delle unità sanitarie locali. La funzione di commissario liquidatore da parte dei direttori generali delle aziende sanitarie locali è prevista nell'interesse e per conto della regione, agendo essi in qualità di organi di tale ente, laddove nessuna disposizione autorizza a ritenere che sia stato attuato anche un trasferimento alle neocostituite aziende degli obblighi già attribuiti alla stessa regione per il pagamento dei debiti delle pregresse gestioni delle unità sanitarie locali.

Questa interpretazione è quella anche ritenuta alla Corte costituzionale, che, chiamata a risolvere le questioni di costituzionalità concernenti i rapporti nella materia in esame tra legislazione regionale e legislazione statale, ha assimilato la vicenda ad una fattispecie di successione ex lege della regione nei rapporti obbligatori facenti capo alle pregresse gestioni delle preesistenti unità sanitarie locali (Corte cost. n. 89 del 2000).

Questi principi sono condivisi dal Collegio e ad essi si è attenuta la sentenza impugnata, che ha fatto espresso richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite n. 1989 del 1997. La ricorrente incidentale non offre argomenti tali che possano indurre a ricostruire la vicenda successoria in termini diversi da quelli sopra indicati.

6.2. La ricorrente Regione tende ad escludere la propria legittimazione passiva proponendo, come si è detto, un'interpretazione dell'art. 6 della legge n. 724 del 1994 nel senso di ritenere che l'obbligo delle regioni di mettere a disposizione delle gestioni liquidatorie i mezzi finanziari atti ad estinguere i debiti gravanti sulle USL è limitato alle risorse necessarie ad estinguere le obbligazioni nascenti da contratti di fornitura di appalto e di servizi, con esclusione dei debiti che, come quello in esame, traggono origine da diversi fatti.

Si tratta di un'interpretazione che non può essere accolta e che contrasta con la lettera e la ratio della legge. L'art. 6, comma 1, ultima parte della legge n. 724 del 1994 dispone che "in nessun caso è consentito alle regioni di far gravare sulle aziende di cui al d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni ed integrazioni, né direttamente né indirettamente, i debiti e i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unità sanitarie locali. A tal fine le regioni dispongono apposite gestioni a stralcio, individuando l'ufficio responsabile delle medesime". Il riferimento è dunque ai debiti e i crediti, senza ulteriori distinzioni; cosicché nulla autorizza ad individuare una specifica categoria di debiti (quelli nascenti da contratti di fornitura e di appalto) come la categoria alla quale unicamente si sarebbe fatto riferimento. Il legislatore ha voluto che i debiti facenti capo alle USL non potessero in alcun modo gravare sulle neo costituite aziende e ha realizzato, come si è detto, una successione ex lege delle regioni nei rapporti obbligatori già di pertinenza delle soppresse USL. In questo quadro, mentre non ha senso distinguere tra le varie categorie di debiti, la qualificazione in termini di successione ex lege necessariamente fa riferimento a tutti i debiti già facenti capo alle soppresse U. S. L.

6.3. La Regione ricorrente, "nella denegata ipotesi di adesione alla tesi secondo la quale l'art. 6 l. 23 dicembre 1994, n. 724 sarebbe applicabile a tutte le obbligazioni delle USL, ivi comprese quelle derivanti da ipotesi di responsabilità iatrogena" solleva la questione di legittimità costituzionale della norma indicata per contrasto con gli artt. 81 e 119 Cost. Ritiene che la legge statale 11 febbraio 1997, n. 21 e la legge regionale 9 luglio 1997, n. 21 che hanno finanziato il disavanzo di parte corrente del debito del servizio sanitario nazionale non riguarderebbero anche i debiti quale quello in oggetto (risarcimento del danno per responsabilità professionale). La tesi è che la legge statale n. 21 del 1997 (più esattamente il d.l. 13 dicembre 1996, n. 630 conv. in 1. 11 febbraio 1997, n. 21 e recante "Finanziamento dei disavanzi delle aziende unità sanitarie locali al 31 dicembre 1994 e copertura della spesa farmaceutica per il 1996") concerneva la copertura del "disavanzo di parte corrente") e riguardava dunque solamente le spese ordinarie e non anche quelle straordinarie, quale sarebbe quella sottintesa alla pretesa fatta valere nella presente causa.

La questione è manifestamente infondata.

La tesi svolta dalla ricorrente incidentale non ha fondamento. L'errore di interpretazione dell'6 della legge n. 724 del 1999 nel quale incorre la ricorrente si riflette su tutto lo sviluppo successivo del ragionamento e fa ritenere senza fondamento la conclusione che la copertura del disavanzo riguardasse solo le spese nascenti da contratti di fornitura o di appalto.

In ogni caso, il legislatore (art. 6 della legge 5 agosto 1978) nel classificare le entrate e le spese dello Stato non ha dato definizioni, ma ha individuato ciò che va compreso nelle spese di investimento o in conto capitale e ciò che residualmente va ricompreso nella spesa corrente. Le unità relative alla spesa di conto capitale "comprendono le partite che attengono agli investimenti diretti e indiretti, alle partecipazioni azionarie e ai conferimenti nonché ad operazioni per concessioni di crediti". Le altre spese vanno residualmente classificate come correnti. Le somme dovute per risarcimento del danno conseguente all'attività medica non costituiscono certamente spesa di investimento o in conto capitale; e ciò è sufficiente per fa ritenere la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sollevata.

7. Il ricorso principale proposto nei confronti dell'Azienda Ospedaliera (omissis) va dichiarato inammissibile, non essendo state svolte doglianze nei confronti dell'Azienda e non ricorrendo un'ipotesi di inscindibilità di cause.
In conclusione vanno accolti i primi quattro motivi del ricorso principale, assorbiti gli altri, mentre va rigettato il ricorso incidentale. La sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa va rinviata ad altra sezione della Corte d'appello di Bologna, che procederà ad un nuovo esame attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione. Va dichiarato infine inammissibile il ricorso principale nei confronti dell'Azienda Ospedaliera (omissis) con compensazione delle spese fra queste parti, sussistendo giusti motivi.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie i primi quattro motivi del ricorso principale assorbiti gli altri; rigetta il ricorso incidentale; cassa in relazione e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Bologna, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione;

dichiara inammissibile il ricorso principale nei confronti dell'Azienda Ospedaliera (omissis) e compensa tra queste parti le spese del giudizio di cassazione.

 

(Fonte: www.giustizia.it)

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