L'esecuzione di lavori sulla strada pubblica è da considerare attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., costituendo i lavori fonte di pericolo.
Pertanto chi pone in essere un'attività pericolosa è tenuto ad organizzarla in forme tali che risulti scongiurata l'eventualità che la pericolosità trasmodi in danno concreto.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Toti Giancarlo, premesso che, percorrendo con la propria autovettura Alfa Romeo 164 la strada provinciale Ardeatina, si era improvvisamente trovato davanti alcuni operai che stavano eseguendo lavori di riparazione della strada e per evitarli aveva posto in essere una manovra di emergenza a causa della quale l'autovettura era sbandata, finendo contro un altro veicolo, conveniva innanzi al Tribunale di Roma la Provincia di Roma per il risarcimento dei danni all'autovettura ed alla persona che ne erano conseguiti.
La Provincia resisteva, deducendo che l'incidente si era verificato per la velocità dell'autovettura superiore al limite previsto.
Istruita la causa, il Tribunale rigettava la domanda; il rigetto era confermato dalla Corte di appello di Roma con sentenza resa l'11 dicembre 1998 su gravame del Toti.
Secondo la Corte l'incidente era da ascrivere in via esclusiva alla condotta di guida del Toti, improntata a negligenza ed imprudenza; in particolare, dal rapporto dei C.C. risultava:
a) sul luogo vi era il segnale di dosso, di divieto di sorpasso, di limite di velocità;
b) il Toti aveva dichiarato che, superato il dosso, vi era un operaio della Provincia con una paletta che deviava il traffico;
c) lo stesso Toti aveva fornito una ricostruzione della dinamica dell'incidente; alla stregua di tali risultanze era evidente che il Toti aveva tenuto velocità elevata, mentre avrebbe dovuto moderarla; in questa situazione era priva di rilevanza la mancata collocazione di un apposito segnale di lavori in corso; le deposizioni dei testi addotti dalla Provincia erano più attendibili di quelle dei testi addotti dal Toti.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Toti sulla base di un motivo contenente varie censure; la Provincia ha resistito con controricorso; il Toti ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Denunciandosi violazione o falsa applicazione degli artt. 2050 c.c., 21 c.d.s., 29 ss., 41 d.P.R. 495/1992, nonché vizi di motivazione (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.) si sostiene:
1) la Corte di merito non ha considerato che i lavori in corso sulla strada non erano segnalati con le modalità previste dalla legge, sicché il Toti non aveva motivo di prevederli e di adeguare ad essi la condotta di guida;
2) non vi è la prova che il Toti ha superato il limite di velocità ed anzi dalla deposizione del teste Pierpavolini si evince che non lo ha superato; mancano, comunque, elementi per stabilire in quale misura lo ha superato;
3) le risultanze probatorie e, particolarmente, la dichiarazione del Toti, largamente utilizzata dalla Corte di merito, portano a ritenere che un operaio della Provincia ha deviato il traffico, ma non ha segnalato al Toti di fermarsi, per come prescritto dall'art. 42 Regolamento del c.d.s.;
4) la causa dell'incidente o, quanto meno, una concausa è la mancata apposizione del segnale di lavori in corso prevista dagli artt. 21 ss. del nuovo c.d.s. e 30 ss. d.P.R. 495/1992 con conseguente impossibilità per il Toti di prevedere i lavori medesimi;
5) a norma dell'art. 2050 c.c. chi, come nella specie la Provincia, cagiona ad altri danno nello svolgimento di attività pericolosa è tenuto al risarcimento se non prova di avere adottato le misure idonee ad evitare il danno e la Provincia non lo ha provato;
6) non si vede per quale motivo i testi addotti dal Toti sono inattendibili, mentre sono attendibili quelli di controparte.
Le censure sono fondate.
Occorre premettere che l'esecuzione di lavori sulla strada pubblica è da considerare attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., costituendo i lavori fonte di pericolo.
Pertanto, chi esercita l'attività è soggetto alla presunzione stabilita dalla norma sopra indicata in relazione ai danni subiti dagli utenti della strada a causa e nello svolgimento dell'attività.
È discusso se si tratta di una forma di responsabilità oggettiva o per colpa: secondo un orientamento dottrinale, che si richiama alla relazione al codice, la deroga al principio della responsabilità per colpa si limita all'inversione dell'onere probatorio ed alla sufficienza di un grado di colpa minore di quello richiesto dall'art. 2043 c.c.; secondo altro orientamento, è una forma di responsabilità oggettiva più limitata di quella che si estende fino al caso fortuito.
Come è stato osservato, l'art. 2050 impedisce di individuare un principio generale di responsabilità oggettiva di impresa nel sistema del codice civile perché nell'ipotesi, che più sembra implicare l'esigenza di svincolare la responsabilità dalla colpa, consente l'esonero in termini tali che risulta difficile la riconduzione alla categoria della responsabilità oggettiva in senso proprio.
La stessa duplicità di orientamento si riscontra nella giurisprudenza di legittimità, che a volte propende per un'ipotesi di responsabilità costruita sulla colpa (Cassazione 3678/1984; 1425/1983) ed altre volte, facendo riferimento ad una presunzione di responsabilità, per l'ipotesi della responsabilità oggettiva (Cassazione 4777/1998; 567/1995).
Sembra, comunque, evidente che la formulazione della norma è in sintonia con la nozione moderna di colpa, che si caratterizza per il preminente significato oggettivo.
Chi pone in essere un'attività pericolosa è tenuto ad organizzarla in forme tali che risulti scongiurata l'eventualità che la pericolosità trasmodi in danno concreto.
Nell'ipotesi in cui l'attività è esercitata in forma di impresa è chiamato a rispondere chi ha il controllo dell'attività al momento del danno sul solo presupposto dell'oggettiva mancanza delle misure idonee ad evitarlo senza possibilità di provare di essere personalmente incolpevole; ciò perché la valutazione richiesta dalla norma concerne l'attività nel suo complesso e non il personale comportamento dell'imprenditore.
Presupposto per l'applicazione della presunzione di responsabilità è che sussista un nesso causale tra l'esercizio dell'attività pericolosa ed il danno, la cui prova spetta al danneggiato.
Una volta provato il nesso causale, per superare la presunzione di responsabilità l'esercente l'attività pericolosa deve provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Nella scelta di tali misure l'esercente l'attività dispone di un margine di discrezionalità da esercitare facendo uso della normale prudenza e tenendo conto dello sviluppo della tecnica e delle condizioni pratiche in cui si svolge l'attività.
Siffatta discrezionalità viene, peraltro, meno quando è la legge ad imporre l'obbligo di adottare talune misure.
Non rimane, pertanto, superata la presunzione di responsabilità da parte dell'esercente l'attività che dimostri di avere adottato misure diverse da quelle prescritte da norme legislative o regolamentari senza che vi sia alcuna possibilità di valutarne l'idoneità (Cassazione 3022/2001; 7298/2003).
Nel caso di lavori eseguiti su strade gli artt. 8 ss. del previgente c.d.s., 7, 8, 9 del relativo regolamento, 21 del vigente c.d.s., 30 ss. del relativo regolamento impongono l'uso di particolari sistemi di segnalazione.
Il fatto del danneggiato può avere effetto liberatorio quando operi nell'ambito del rapporto di causalità materiale in modo tale da rendere giuridicamente irrilevante l'operato di chi esercita l'attività pericolosa e non quando concorra semplicemente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione già di per sé pericolosa a causa dell'inidoneità delle misure preventive adottate senza la quale l'evento non si sarebbe verificato (Cassazione 2189/1978).
Nella specie la Corte di merito non ha valutato se concorressero le condizioni per l'applicazione della presunzione di responsabilità prevista dall'art. 2050 c.c. e se, queste concorrendo, si potesse ritenere raggiunta la prova occorrente per superare la presunzione.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per nuovo esame sulla base dei principi di cui sopra e pronuncia in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.