Secondo la Corte di Cassazione i principi relativi alla ragionevole durata del processo (L. 89/2001, c.d. Legge Pinto) si applicano solo alle controversie civili e penali e non (anche) ai giudizi tributari.
C.Cass. Sez. I civ., 27 agosto 2004, n. 17139
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso dell'11 ottobre 2001 – in riassunzione da ricorso proposto alla Cedu il 28 luglio 2000 – R.A. conveniva innanzi alla Corte di appello di Perugia il ministero delle Finanze onde ottenerne il riconoscimento di equa riparazione per l'irragionevole durata del procedimento instaurato innanzi alla Commissione tributaria di primo grado di Roma il 24 settembre 1993 e definito con sentenza 4513/2000 con la quale la Cassazione aveva respinto il gravame proposto avverso la decisione 9 settembre 1997 della Commissione tributaria regionale del Lazio. L'adita Corte di Perugia, con decreto 14 gennaio 2002, sull'assunto della estraneità dei crediti tributari dall'ambito dell'articolo 6 della Convenzione europea – come affermato da ultimo nella decisione 12 luglio 2001 della Corte di Strasburgo – dichiarava inammissibile il ricorso.
Per la cassazione di tale decreto, notificato il 18 aprile 2002, il R. ha proposto ricorso notificandolo il 7/12 giugno 2002 al Ministero presso l'Avvocatura generale dello Stato (ed in esso denunziando violazione dell'art. 3, comma 3, l. 89/2001 ed omesso esame della giurisprudenza della Corte europea). L'intimata Amministrazione finanziaria non ha espletato difese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La questione proposta nei motivi del ricorso – se sia o meno applicabile anche ai giudizi in materia tributaria la disciplina dell'equa riparazione "per mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6 § 1 della Cedu", quale introdotta dagli artt. 2 e ss. della l. 89/2001 – deve essere risolta in senso negativo, per le ragioni e nei limiti di cui appresso viene data motivazione.
Conducono – convergentemente – a tale soluzione:
a) la considerazione del collegamento genetico (quale reiteratamente sottolineato pure nei lavori preparatori della l. 89/2001) e funzionale (testualmente ed univocamente postulato dall'art. 2 stessa legge) della citata legge nazionale con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo;
b) il valore conformativo, in termini di diritto vivente (o del cosiddetto valore di cosa interpretata) che riveste la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, relativamente alla definizione e delimitazione della portata applicativa della fattispecie disciplinata dalla norma europea (art. 6 § 1 cit.), alla cui violazione, appunto, il nostro legislatore ha inteso porre rimedio con il meccanismo riparatorio che qui viene in discussione;
c) le chiare indicazioni emergenti dalla giurisprudenza della stessa Corte europea (anche di recente ribadite) nel senso della non estensibilità del campo di applicazione dell'art. 6 § 1 Cedu alle controversie tra il cittadino ed il Fisco, aventi ad oggetto provvedimenti impositivi.
Sviluppando, più analiticamente, le testé sintetizzate osservazioni, si osserva:
1. Come rammentato anche nelle recenti pronunzie delle Sezioni Unite di questa Corte (sentenze 1338/2004 e 1340/2004), l'approvazione della l. 89/2001 (la c.d. legge Pinto) è stata "determinata dalla necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi in modo da realizzare quel principio di sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo sul quale si fonda il sistema europeo di protezione dei diritti dell'uomo" e dal quale deriva che gli Stati che hanno ratificato la Convenzione devono riconoscere a tali diritti una "protezione effettiva (art. 13 Cedu) e cioè tale da porre rimedio – alle eventuali violazioni – senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo".
Un tale rimedio in precedenza non esisteva nell'ordinamento italiano, con la conseguenza che i ricorsi contro l'Italia per violazione dell'art. 6 della Cedu avevano "intasato" (è il termine usato dal relatore Follieri nella seduta del Senato del 28 settembre 2000) il giudice europeo. Rilevava la Corte di Strasburgo, prima della l. 89/2001, che le dette inadempienze dell'Italia "riflettono una situazione che perdura, alla quale non si ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di alcuna via di ricorso interna. Tale accumulo di inadempienze è pertanto costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione (quattro sentenze alla Corte in data 28 luglio 1999, su ricorsi di Bottazzi, Di Mauro, Ferrari e A.P.) (Così Sezioni Unite, 1340/2004).
La l. 89/2001 ha dunque posto riparo a quelle precedenti inadempienze dell'Italia, restituendo all'intervento della Corte europea il carattere suo proprio di sussidiarietà (e non di supplenza) rispetto all'intervento interno.
Da ciò la perfetta simmetria di contenuto della norma nazionale rispetto al precetto comunitario, nel senso e per la ragione (chiaramente esplicitati nei lavori preparatori: vd. Relazione alla legge Pinto, in atti Senato 3813 del 16 febbraio 1999) che il meccanismo riparatorio introdotto dal legislatore italiano del 2001 mira ad assicurare al ricorrente "una tutela analoga a quella che egli riceverebbe nel quadro della istanza internazionale", poiché il riferimento diretto all'art. 6, quale all'uopo inserito nel testo dell'art. 2 della l. 89/2001, consente di trasferire sul piano interno "i limiti di applicabilità della medesima disposizione esistenti sul piano internazionale".
2. Questa simmetria tra i due piani (interno ed internazionale) di tutela dei diritti dell'uomo – coessenziale, come detto, all'attuazione del principio di sussidiarietà che deve ricondurli a sistema – si realizza, appunto, conformando la fattispecie violativa cui è ricollegata l'equa riparazione ex lege 89/2001 a quella disegnata dalla norma comunitaria di riferimento, come in concreto (quest'ultima) vive attraverso l'esegesi della Corte di Strasburgo. Atteso che – come pur rammentato nei richiamati arresti delle Sezioni Unite – poiché il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla l. 89/2001 consiste in una determinata violazione della Cedu, spetta al giudice della Cedu individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico che, pertanto, finisce per essere "conformato" dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene alla applicazione della l. 89/2001, ai giudici italiani.
3. Ora, con riguardo specifico al quesito esegetico posto dal ricorso in esame, la Corte dei Diritti dell'uomo, dopo aver premesso che la nozione di controversia in materia civile e di controversia in materia penale (in relazione e nei limiti delle quali è tutelato dall'art. 6 § 1 Cedu il diritto alla ragionevole durata del processo) va determinata "in modo autonomo" da essa Corte, poiché qualsiasi altra soluzione rischierebbe di portare a risultati incompatibili con l'oggetto e la portata della Convenzione (v. sentenze in cause Konig c. Rft del 28 giugno 1978 – Barona c. Portogallo dell'8 luglio 1987 – Maaonia c. Francia 39652/98 – Pierre Bloch c. Francia del 21 ottobre 1997), ha già avuto a tal fine occasione di escludere che rientrino nella sfera di applicazione della Convenzione le controversie relative ad obbligazioni – pur di natura patrimoniale – che "risultino da una legislazione fiscale" ed attengano, invece che a diritti di natura civile, a doveri civici imposti in una società democratica (v. decisione in causa Schontene Meldrum c. Paesi Bassi del 9 dicembre 1994). Del resto, nella più recente sentenza in causa Ferrazzini c. Italia del 12 luglio 2001 quella stessa Corte – ripropostasi di (e dopo aver provveduto a) "verificare", alla luce dei cambiamenti intervenuti nella società con riguardo alla tutela concessa agli individui nei loro rapporti con lo Stato, se il campo di applicazione dell'art. 6 § 1 Cedu dovesse o meno estendersi alle vertenze relative alla legittimità dei provvedimenti dell'amministrazione finanziaria – ha ancora una volta ribadito la estraneità ed irriducibilità delle suddette vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile, cui ha riguardo il più volte citato art. 6 Cedu. Ed ha all'uopo sottolineato che "le evoluzioni verificatesi nelle società democratiche non riguardano la natura essenziale dell'obbligazione per gli individui di pagare le tasse" poiché "la materia fiscale fa parte ancora del nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica".
4. Da ciò, quindi, la conclusione, per quel che qui deriva, che l'equa riparazione prevista dalla legge nazionale per la violazione dell'art. 6 § 1 Cedu non è riferibile alla eventuale eccessiva protrazione della durata di controversie, involgenti la potestà impositiva dello Stato, che dal quadro di tutela della norma comunitaria restano – per come visto – escluse. Né è sostenibile che siffatta conclusione sia contraddetta dalla previsione dell'art. 3 della l. 89/2001, che include, tra i soggetti legittimati passivi rispetto all'azione di riparazione, anche il ministero delle Finanze quando si tratti di procedimenti tributari. Detta ultima disposizione – che per la sua natura di norma processuale attinente alle forme di esercizio del diritto non potrebbe immutare ed ampliare i contenuti della tutela, quale definita e circoscritta dalla normativa di portata sostanziale di cui al precedente art. 2 della stessa legge – va infatti letta in modo assolutamente coerente con il complessivo impianto sistematico della legge nazionale e della Convenzione, nel senso della sua riferibilità a quelle (e soltanto a quelle) controversie di competenza del giudice tributario, che siano riferibili: a) alla materia civile, in quanto riguardanti pretese del contribuente che non investano la determinazione del tributo ma solo aspetti a questa consequenziali, come, esemplificando, nel caso del giudizio di ottemperanza ad un giudicato del giudice tributario ex art. 70 d.l. 546/1992 od in quello (anch'esso di competenza di quel Giudice come rammentato da Sezioni Unite 18208/2003) del giudizio vertente sull'individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza; b) alla materia penale, intesa quest'ultima – secondo la "nozione autonoma" elaborata anche per tal profilo dalla giurisprudenza della Cedu, di cui il giudice nazionale deve tenere conto – come comprensiva anche delle controversie relative alla applicazione di sanzioni tributarie, ove queste siano commutabili in misura detentive ovvero siano, per la loro "gravità", assimilabili sul piano della afflittività ad una sanction penale (v. Affaire Janoseviv c. Suede del 23 luglio 2002).
5. Priva di alcun rilievo è, a questo punto, anche l'argomentazione per la quale nulla avrebbe impedito al legislatore nazionale di ampliare l'ambito della tutela predisposto dalla Convenzione, estendendo l'equa riparazione anche alle procedure tributarie in senso stretto. Infatti, quel che vincola l'interprete non è ciò che il legislatore avrebbe in astratto potuto ma ciò che esso ha in concreto voluto disporre. Ed il legislatore del 2001 (come inequivocabilmente si è visto emergere dalla lettera, dalla ratio, dal sistema e dai fini della l. 89) ha inteso propriamente, ed esclusivamente, far coincidere l'area di operatività dell'equa riparazione con quella (di violazione) delle garanzie assicurate dalla Cedu).
6. Né, da ultimo, la l. 89/2001, così come interpretata in correlazione e piena sintonia con l'articolo 6 § 1 della Cedu, autorizza il dubbio, adombrato dal Pg in udienza, di un suo possibile contrasto con il novellato art. 111 Cost. che, nel tutelare a sua volta la ragionevole durata come elemento del giusto processo, fa riferimento ad ogni tipologia di processo, non escluso quello tributario. Una siffatta questione di legittimità costituzionale sarebbe infatti, per definizione, inammissibile con riguardo ai limiti istituzionali della funzione sindacatoria della Corte costituzionale in rapporto alla funzione legislativa, non essendo richiedibile a quella Corte un intervento volto ad elevare il tasso di costituzionalità di norme che siano (come si prospetta per quelle in esame) non integralmente attuative o comunque non pienamente in sintonia con il precetto costituzionale. In tal caso, invero, resta in premessa escluso alcun vulnus alla Costituzione e la possibile correzione migliorativa della norma – in direzione di una integrale o più completa realizzazione del valore costituzionale – resta di esclusiva competenza del Legislatore (Corte costituzionale 188/1995).
Sulla base delle articolate considerazioni sin qui esposte, e considerato che la controversia tributaria introdotta dal Raia afferiva la ineludibilità nell'imponibile Irpef di compensi corrisposti dal datore di lavoro (pertanto negandosi dal Raia la pretesa impositiva al proposito avanzata dall'Amministrazione finanziaria) deve quindi – in condivisione della decisione di inammissibilità assunta dal Giudice del merito – rigettarsi il ricorso. Quanto alle spese, l'assenza di attività defensionale dell'intimata dispensa dalla regolamentazione.
P.Q.M.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso.